Commenti

Gerusalemme, il circo di Donald Trump

Gerusalemme, il circo di Donald TrumpPalestinese arrestato a Gerusalemme – LaPresse

Usa/Medio Oriente Gli Usa dicono che la decisione non deve impedire i negoziati. Erdogan minaccia la rottura diplomatica con Israele, ma i paesi arabi hanno tradito i palestinesi e non esercitano alcuna pressione. E gli europei? Forse è arrivato il momento che comincino a elaborare una strategia a favore della pace

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 8 dicembre 2017

Esultanza israeliana, timori ovunque, fuochi d’artificio e lacrime di coccodrillo: gli Stati uniti riconoscono Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele e di conseguenza vi trasferiranno la propria sede diplomatica.

Poco dopo, con meno luci della ribalta, Trump ha firmato il decreto che rinvia di altri sei mesi il trasferimento. Passeranno anni prima che l’ambasciata apra le porte nella «capitale unificata per sempre». Scoprendo l’acqua calda, alcuni commentano che gli Usa non potranno più giocare il ruolo di mediatori neutrali. In realtà non lo sono mai stati.

Gli interessi imperiali statunitensi sono sempre stati la questione centrale per la quale è stato versato sangue a fiumi in Medio Oriente, Iraq, Afghanistan, Libia – ricordiamo il grande progetto «alternativo» di Hillary Clinton. La svolta annunciata dal presidente Donald Trump può rivelarsi un atto da piromane e accendere diversi fuochi nella regione, ma non porterà al trasferimento dell’ambasciata né cambierà la realtà di Gerusalemme nei prossimi anni.

Per indorare la pillola, il grande Trump adduce due clausole problematiche: che le parti accettino l’ipotesi dei «due Stati» e che sia rispettato lo status quo di Haram el-Sharif, il nome arabo della Spianata delle moschee, per gli israeliani il Monte del tempio.

La politica estera Usa riflette le caratteristiche più che problematiche del nuovo regime di Washington; è una linea caotica, non risponde con chiarezza ai tradizionali interessi dell’imperialismo Usa e rivela senza volere i cambiamenti avvenuti nella regione.

Riepiloghiamo. Nel 1995 il Congresso Usa approvò la legge che sanciva il trasferimento dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Rabin – a quanto pare – spiegò a Bill Clinton che l’atto avrebbe messo a repentaglio i negoziati israelo-palestinesi. Da allora, per 22 anni, i presidenti americani ogni sei mesi hanno firmato un decreto di rinvio. Clinton, George W. Bush, e poi Obama erano coscienti del fatto che la legge se applicata avrebbe avuto risultati disastrosi nella regione.

Il noto piano di partizione del 1947 prevedeva la creazione di due Stati, con Gerusalemme come capitale sotto l’egida internazionale. Una volta istituito lo Stato di Israele, il suo governo elesse a capitale la parte occidentale di Gerusalemme, sotto il controllo israeliano, in una città divisa da muri.

Nella santa Gerusalemme, il premier Netanyahu guarda con gratitudine la politica del grande Trump: lo scandalo delle sue dichiarazioni distrae l’attenzione dalla corruzione governativa e dai collegamenti mafiosi di un deputato sempre in prima linea nelle manovre parlamentari a favore del premier. Adesso, per un po’, Netanyahu può tornare al ruolo di statista di successo.

Tutti a Gerusalemme sanno che la retorica non può nascondere la realtà di una città divisa, con infrastrutture profondamente diseguali e con un 40% di popolazione palestinese, priva di reali diritti. I 320mila palestinesi che vivono a Gerusalemme riceveranno forse cittadinanza e uguaglianza di diritti? Qualunque visitatore può vedere con chiarezza due città diverse, con un muro invisibile che garantisce divisione, oppressione e discriminazione della popolazione palestinese.

Alcuni portavoce statunitensi dicono che la decisione non deve impedire i negoziati sul futuro della città nel quadro di un processo di pace. In uno dei suoi exploit abituali, il presidente turco Erdogan afferma che Gerusalemme è una linea rossa per tutti i musulmani e minaccia la rottura diplomatica con Israele; ma non può nascondere uno dei fenomeni più problematici: i paesi arabi hanno tradito i palestinesi e non esercitano alcuna vera pressione sui loro alleati di Washington.

L’Arabia saudita è impegnata su una linea anti-iraniana che potrebbe aiutare gli Usa o Israele ad avviarsi sulla china di una tragica guerra. Il presidente egiziano al-Sisi pur avendo contribuito a una debole unità fra i palestinesi, non cerca di esercitare un ruolo centrale nel dibattito, assillato com’è dal problema del terrorismo nel Sinai. Quanto ai giordani, restano sempre sottotono.

E gli europei? Non hanno impressionato Trump i moniti di Germania, Francia e gli altri sulle ripercussioni negative del gesto. Non è chiara una questione vitale: non è forse arrivato il momento che l’Europa e tutti comincino a elaborare un vera strategia a favore della pace, anche se non coincide con gli interessi imperiali? Molti anni fa l’Urss aveva un ruolo importante nella regione…E adesso? La Russia di Putin che fa? È più impegnata nel consolidamento dei successi in Siria e su come affrontare i ripetuti attacchi militari di Israele contro possibili basi iraniane nel paese.

In Israele, Netanyahu, felice ma cauto, ha dato istruzioni ai suoi ministri perché evitino dichiarazioni problematiche. E l’opposizione? Praticamente non esiste. L’esercito, uno dei pochi attori dotati di realismo politico, studia le ripercussioni del passo nei territori occupati e ammassa truppe per preservare l’«ordine».

Quanto alle possibili reazioni palestinesi, potrebbe scatenarsi la rabbia, ma sono giorni tristi per una comunità molto stanca, che da mezzo secolo subisce i rigori dell’occupazione. Non sarà arrivato il momento di un cambiamento vero, che tenga conto non solo degli interessi dell’élite e che implichi l’elaborazione di una strategia reale ed efficace? Sia Trump che Netanyahu potranno approfittare dello scandalo e del sangue che potrebbero scorrere, per far dimenticare i banali problemi legati alla sopravvivenza e alla corruzione che assillano entrambi.

Ma non potranno nascondere il fatto che non si tratta solo di Gerusalemme: la vera questione è come arrivare a una pace vera, con una città unificata che potrebbe essere la capitale di due Stati. O la capitale di uno Stato senza apartheid.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento