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Geoff Dyer, sul viale del tramonto, verso gli ultimi fuochi

Geoff Dyer, sul viale del tramonto, verso gli ultimi fuochiJulian Opie da «Imagine you are driving», 1998-99

Scrittori britannici Prendendo a pretesto il suo tennista preferito, Geoff Dyer riflette, tra saggistica e anedottica, sulle tappe finali dei grandi vecchi, per approdare al declino più amaro: il proprio. «Gli ultimi giorni di Roger Federer», dal Saggiatore

Pubblicato più di un anno faEdizione del 9 luglio 2023

In una celebre foto di Ugo Mulas, titolata «La didascalia», Man Ray indica un riquadro architettonico che simula una cornice appesa a un muro. Nello spazio vuoto, il fotografo inserisce la battuta pronunciata dall’artista al momento dello scatto: «ça, c’est mon dernier tableau». L’immagine, come spiega lo stesso Mulas, è un tentativo di riprodurre non un gesto o una situazione visiva, ma una frase; la si può vedere esposta fino al 6 agosto alle Stanze della Fotografia di Venezia, e sarebbe perfetta per la copertina del più recente lavoro di Geoff Dyer, Gli ultimi giorni di Roger Federer e altri finali illustri (traduzione di Katia Bagnoli, il Saggiatore pp. 353, € 25,00), una raccolta di saggi sul decadere o sul mutare del talento nella tarda età, quando si consumano le ultime fasi di una carriera, che possono a volte contemplare strepitosi ritorni inattesi di artisti ormai considerati finiti.

Il senso della fine

Come lo scatto di Mulas, il volume di Dyer è pervaso dal senso della fine e indica nell’ultimo lavoro, strappato al vuoto della senescenza e incorniciato, la destinazione di un senso postumo alla intera parabola di ogni autore, passibile di venire racchiusa in una frase che al tempo stesso smitizza il suo oggetto e lo investe di ironia. Dyer non solo trasforma in frasi le opere tarde di musicisti, pittori, filosofi, scrittori e le ultime imprese di grandi sportivi ma, non mancando di inserire rimandi alla propria situazione personale, al proprio declino, finisce per riflettere sia sui «finali illustri» sia sulla propria finitudine.

È un lavoro, questo, che, come tutti gli altri di Dyer, spazia tra i generi: dalla saggistica all’aneddotica, dal ricordo autobiografico alle riflessioni musicali: la suddivisione del libro in tre sezioni di analoga lunghezza, ognuna a sua volta composta da 60 paragrafi diligentemente numerati e preceduta da un esergo ad hoc, non tragga in inganno: l’ordine dell’autore è solo apparente. All’interno delle singole sezioni ci si trova infatti a passare, senza soluzione di continuità, dall’autobiografia di Martin Amis con le relative osservazioni su Christopher Hitchens e Philip Larkin, a una lunga digressione sullo «sballo», mentre nello stesso breve paragrafo incontriamo una fotografia di Kerouac, il ricordo di Bill Evans al pianoforte, una canzone di Bruce Springsteen e una considerazione finale su come, invecchiando, si passi dall’ambizione di compiere grandi imprese all’accettazione del presente.

Appassionato di tennis e lui stesso entusiasta tennista dilettante (sono spassosissime le pagine in cui descrive la propria vestizione per scendere in campo, dopo aver subito una serie di infortuni), Dyer prende a pretesto l’annunciato ritiro di Roger Federer, il suo idolo sportivo, per riflettere tanto sui finali di carriera quanto sui casi di illustri personaggi che hanno smesso volontariamente di dedicarsi a quanto amavano e dava senso alla loro vita. Da un lato, dunque, i «grandi vecchi»: William Turner, con la sua «traiettoria che culmina in una ustione e in un bagliore accecante»; i deludenti concerti dell’anziano Dylan, che oggi «sembra di rado nel luogo o nel momento giusto, ovunque essi siano»; il Beethoven del Quartetto per archi n. 15 in la minore, un «commiato, allo stesso tempo interiore e di cosmica vastità». Dall’altro, coloro che hanno lasciato presto la scena, avendo dato il massimo di sé – da Albert Ayler a John Coltrane; e gli anziani come Duke Ellington, che hanno stupito il loro pubblico risalendo tardivamente sul palco al meglio della loro forma; o gli scrittori che hanno prodotto capolavori quando ormai tutti si erano dimenticati di loro: Jean Rhys, fra loro.

La paura del tempo che passa, il senso di fallimento quando si manca una promessa, la malinconia dei poeti – da Tennyson a Larkin a Louise Gluck – invadono le pagine di Dyer, che prende anche nota dei progetti non portati a termine, e del timore della sconfitta che ogni scrittore prova davanti a una pagina bianca.

Certo, l’ultima fase delle carriere illustri era già stata trattata da Edward Said nel suo Sullo stile tardo, e i progetti d’autore non realizzati erano il pretesto dell’atipico romanzo di Enrique Vila-Matas Bartleby e compagnia; ma a simili osservazioni Dyer aggiunge in modo del tutto originale la messa in campo del proprio personale invecchiamento. Alle considerazioni seriose sulla senescenza che avanza tanto gradualmente da risultare impercettibile, con la consapevolezza di «essere legati e sigillati dentro questa vita», senza possibilità di «trovare scampo nella morte» (già presenti in Sabbie mobili e, prima ancora, in Un’altra formidabile giornata per mare) si alternano i propositi, a volte decisamente scherzosi, per arginare la paura della fine e vivere al meglio gli «ultimi giorni».

Lavoro, pensionamento

Consapevole di provenire da una classe sociale che considera la pensione come un traguardo e di essere approdato al mondo degli scrittori, in cui il concetto di quiescenza non è ammesso (anche perché «la differenza tra lavoro e pensionamento è impercettibile») Dyer, si rende conto che chi, come lui, è arrivato alla «domenica mattina» della sua settimana esistenziale, per sfruttare al meglio il tempo che rimane deve conservare «qualche residuo di come vedeva il mondo a quattordici anni». Autorappresentandosi come un uomo di piccole ambizioni, che per colmare la mancanza di obiettivi più elevati escogita risibili stratagemmi (rubare i flaconcini di shampoo negli alberghi fino ad averne una riserva «sufficiente per aprire un negozio da parrucchiere») Dyer sembra mettere a fuoco con ironia la struttura della sua saggistica, «priva di direzione e di scopo», più o meno come gli appare la sua stessa vita.

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