È giusto processare Israele per genocidio davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia, come ha chiesto e ottenuto il governo sudafricano? Le risposte, nella discussione di queste settimane sul punto, si muovono su più livelli.

Un primo livello è quello dell’etica, ne ha scritto su queste pagine Roberta De Monticelli. All’Aia, così De Monticelli, l’umanità «è a un bivio tra l’abisso e la speranza, fra lo spiraglio di questa simbolica riaffermazione della prevalenza del diritto internazionale sulla potenza degli Stati, e la spirale di una politica di potenza che già ovunque nel mondo, dove ha potuto, ha rotto i vincoli legali, mutandosi in guerra». Condivido la speranza, osservo che con questo metro la Corte dell’Aia dovrebbe mandare a processo qualche decina di Stati (compresi parecchi di quelli che appoggiano l’iniziativa del Sudafrica).

Un secondo livello è quello del diritto. Credo che la guerra condotta da Israele a Gaza rientri certamente, in molti suoi aspetti, nella categoria dei crimini di guerra, e credo anche che «genocidiari» siano i propositi espressi pubblicamente dai ministri più «estremisti» del governo Netanyahu; più incerto, mi pare, è stabilire che l’azione di Israele a Gaza appartenga alla fattispecie giuridica del genocidio, per la quale – nella definizione che ne diede ottanta anni fa il suo inventore Raphael Lemkin, riferita alla Shoah, e tuttora adottata nel diritto internazionale – a caratterizzare un atto di sterminio come genocidio è innanzitutto l’intenzionalità dell’obiettivo di annientare in tutto o in parte gruppi nazionali, uccidendone sistematicamente i componenti per la sola ragione che ne fanno parte.

Un terzo livello è quello del risultato politico concreto. Il processo, ancora di più una eventuale condanna, si dice, possono costituire un efficace strumento di pressione su Israele perché interrompa il massacro di civili che sta compiendo a Gaza. Anche qui condivido l’auspicio, ma mi chiedo se l’effetto non sarà opposto nel caso non impossibile di una assoluzione.

C’è poi un quarto livello, meno frequentato degli altri ma che ritengo importante: riguarda il linguaggio. Su questo terreno la parola genocidio ne richiama un’altra utilizzata anch’essa nel dibattito pubblico su quanto sta capitando in Israele/Palestina: la parola olocausto evocata per qualificare l’attacco terrorista compiuto da Hamas il 7 ottobre. È fondato, è benefico, questo uso tendenzialmente estensivo – di sicuro estensivo rispetto al significato originario – di concetti «impegnativi» come genocidio e olocausto? Io penso che non lo sia. La scelta di ricorrere a espressioni «forti» per aggettivare vicende di straordinaria tragicità, com’è stato l’attacco di Hamas del 7 ottobre con il suo seguito terrificante di vittime civili e di altri civili presi in ostaggio e come sono i bombardamenti a tappeto israeliani su un territorio – la Striscia di Gaza – tra i più densamente popolati del mondo, risponde a un’esigenza in sé legittima: rendere più immediata la percezione di questi fatti, nel dibattito pubblico e mediatico, come moralmente inaccettabili.

E però questo allargamento semantico del perimetro concettuale di genocidio come di olocausto contiene, tipicamente, un rischio di eterogenesi dei fini. Il linguaggio contribuisce molto a plasmare l’opinione delle persone: dare nomi così «definitivi» a fatti tragici, a pratiche di guerra e di terrorismo certamente da stigmatizzare ma che si collocano al di sotto del «contenuto di senso» che a questi nomi ha dato origine, rischia di generare un effetto opposto a quello della «drammatizzazione». Rischia di diluire la percezione dei due concetti in un “brodo” di abitudinarietà.

Ho voluto tenere fuori da queste brevi considerazioni, provando a «oggettivizzarle», ogni riferimento ai tanti incroci che connettono i giudizi di ognuno su quanto accade in Israele/ Palestina con la «questione ebraica» nelle sue diverse declinazioni : antisemitismo, sionismo e antisionismo… Ma finisco proponendo anch’io un incrocio semantico che lega le due sfere di valutazione: vedo il rischio, come per lo sterminatore nazista Eichmann raccontato da Hannah Arendt, che slabbrati sempre di più genocidio e olocausto finiscano per assomigliare a una grigia e indistinta «banalità del male».