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Alla Corte dell’Aja l’umanità è al bivio

Una manifestazione fuori dalla Corte internazionale di giustizia dell'Aia foto ApUna manifestazione fuori dalla Corte internazionale di giustizia dell'Aia – foto Ap

Israele/Palestina Davanti alla Corte, da una parte c’è lo spiraglio di una simbolica riaffermazione della prevalenza del diritto internazionale sulla potenza degli stati. Dall’altra la spirale di una politica di potenza che già ovunque nel mondo, dove ha potuto, ha rotto i vincoli legali mutandosi in guerra

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 17 gennaio 2024

Israele a processo davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja. E la pronunzia di quel nome terribile che squarcia tutti i tabù e gli interdetti, genocidio, suscitando raffiche di riprovazioni e negazioni sparate dai politici, israeliani e no. Anthony Blinken in testa, secondo il quale l’azione legale sudafricana «distrae il mondo». Da cosa? Come se un’accusa di genocidio fosse una fola che non merita di essere presa sul serio!

E invece proprio all’Aja l’umanità è al bivio, per citare Luigi Ferrajoli, Per una Costituzione della Terra (Feltrinelli 2022). Lo è la nostra comune umanità, quella già macchiata dai cento giorni di bombe su Gaza, secondo il capo dell’Agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi, Philippe Lazzarini. È a un bivio fra l’abisso e la speranza. E non solo per la sorte di Gaza, o la speranza che la Corte accolga la richiesta di misure precauzionali, fra cui il cessate il fuoco, se riterrà plausibile l’accusa: perché ne seguirebbe l’obbligo di fermare l’eventuale consumazione di questo reato dei reati. La nostra umanità è al bivio fra lo spiraglio di questa simbolica riaffermazione della prevalenza del diritto internazionale sulla potenza degli stati, e la spirale di una politica di potenza che già ovunque nel mondo, dove ha potuto, ha rotto i vincoli legali, mutandosi in guerra. Ma è proprio lì, in quell’ammasso di dolore e rovina che è la Striscia di Gaza, che ora brucia l’anima del mondo. Perché lì si consuma quotidianamente una strage che non è solo di corpi e di anime, è di significato e verità. Forse in nessun altro osservatorio tragico del mondo si vede così bene quanto il bivio fra la speranza e l’abisso, fra la civiltà e la guerra mondiale, prenda avvio dal linguaggio.

La prima biforcazione è lì: fra chi lo usa sentendosi impegnato a riconoscere il vero – impegno con cui comincia l’etica – e chi delle parole abusa, per ignorare il vero senza neppure confessarlo a se stesso. Per cancellare i nomi dell’altro. Per chiamare democratico uno Stato che si regge sull’esclusione di una parte dei suoi cittadini dai diritti di nazionalità (Nation-State Act del 2018) e sulla soggezione degli altri, non-cittadini, a un regime d’occupazione sempre più feroce, in quella terra che Israele sognò «senza popolo».

E soprattutto per chiamare «guerra», ora, ciò che «guerra» non è e non può essere, perché il nemico, Hamas, non è uno stato; perché non ha il controllo sul territorio, sulla moneta, sulle frontiere, sull’energia, sull’economia e perfino sulle basi della sopravvivenza: l’acqua, il pane, il lavoro. Perché prima di questa ecatombe Gaza ne ha subite altre cinque, minori certo in estensione e durata, ma simili nell’impossibilità per gli innocenti di fuggire dalla «più grande prigione a cielo aperto». Perché chiamare «guerra» questa ecatombe di civili, quando il territorio bombardato è a tutti gli effetti soggetto alla potenza occupante (cui il diritto internazionale accolla invece responsabilità di protezione nei confronti dei civili, per severa che possa essere la pena per i responsabili delle milizie di resistenza armata), è una violazione della logica e dell’etica dagli effetti devastanti. Pari solo allo sdoganamento, nel linguaggio prima e negli atti poi, di ciò che viene prima dell’assetto civile delle società umane, che appartiene al loro strato più arcaico e tribale: la vendetta.

Se cancellassimo la distinzione radicale fra la violenza senza limiti di legge (come quella di Hamas il 7 ottobre) e quella soggetta a tutti i vincoli di uno Stato di diritto e del diritto internazionale, se la cancellassimo anche dal linguaggio (sempre più cinico e corrivo) della maggior parte dei politici e dei commentatori, cosa resterebbe della civiltà rinata dalle ceneri della guerra, cosa resterebbe perfino della memoria delle vittime della Shoah? Più nulla.

Ed ecco perché la voce dell’accusa che si è levata l’11 gennaio alla Corte dell’Aja è parsa a molti «più intima del proprio intimo» – come il richiamo di una possibile salvezza. Grandi attori di tutto il mondo ne hanno rilanciato in rete le frasi cruciali. A molte orecchie esse sono parse, come altre già incise nella memoria umana universale, «legiferanti». Che è molto, molto di più di «giuridicamente stringenti». Perché parevano una restitutio, una re-instaurazione del mondo nato da quel «mai più»: quel patto di convivenza pacifica fra tutti i popoli della terra che fu stipulato con la carta dell’Onu nel 1945 e con la Dichiarazione universale nel 1948.
Una questione di memoria, come scrisse Kant all’inizio dell’età dei diritti. Non si dimentica più, diceva, la proclamata «primazia del diritto» sulla forza. E mentre l’Europa tace e gli Usa mandano bombe, è come se nelle parole dei sudafricani fosse risuonata la voce profonda di Nelson Mandela, che già una volta aveva rinnovato il mondo. «E farò nuovi cieli, e nuova terra»: all’Aja parve possibile una renovatio mentis, che strappava l’anima del mondo a quella catastrofe intellettuale prima che morale che è la menzogna politica, mostrando come la politica senza il diritto non sia solo cieca, ma anche criminale.

E la difesa di Israele? Una questione di memoria, anche questa. Tragica. Non la memoria del diritto, ma la politica della memoria. Anche di questa bisognerà parlare, alla vigilia del Giorno della Memoria.

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