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Genesi, storia e deliri del collaborazionismo

Genesi, storia e deliri  del collaborazionismoDal film di Louis Malle Lacombe Lucien, 1974

Editoria Francia Al centro di un nuovo, corposo volume di studi su anarchismo di destra, fascismo e populismo dello storico francese Pascal Ory, ricompare Les Collaborateurs 1940-1945: la monografia (insuperata) che nel ’76 dissodò il terreno

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 23 ottobre 2022

Collaborazionismo è il termine con cui la storiografia designa, nella seconda guerra mondiale, l’attività dei gruppi politici proclivi al regime nazista e dei governi proni alla volontà degli occupanti tedeschi come nei casi esemplari del maresciallo Pétain a Vichy da un lato e di Quisling in Norvegia dall’altro. La Francia, in particolare, ha preso a trattarne dopo l’uscita del volume, nel 1972, di Robert O. Paxton (in italiano Vichy 1940-1944, il Saggiatore) che impattava un autentico tabù, cioè l’ambiguo prolungato silenzio tanto dei gaullisti (il Generale proveniva dalla stessa couche cattolica e nazionalista del Maresciallo di cui a suo tempo era stato un pupillo) quanto dei comunisti, poco inclini a sfatare il mito dell’ecumenismo antifascista ricordando, per esempio, il loro sostegno al patto Molotov-Ribbentrop e la totale acquiescenza agli occupanti fino all’attacco all’Unione Sovietica del giugno ’41.
Uscita in prossimità del trentennale della Liberazione e in un frangente di grande rivolgimento culturale e politico, l’opera di Paxton è l’incipit di un contenzioso che in Francia è via via divenuto un caso di autobiografia nazionale, tutt’altro che concluso se nell’ultima campagna per le presidenziali l’ineffabile Eric Zemmour si è potuto permettere per l’ennesima volta la menzogna per cui lo «Statuto degli Ebrei» di Vichy era in realtà una misura di salvaguardia degli israeliti francesi, fingendo di ignorare che nella Grande Rafle del Velodromo d’Inverno – luglio ’42, dodicimila deportati – finirono per lo più ebrei di cittadinanza francese.

Ora, nella vasta bibliografia che col tempo si è venuta assortendo (e si pensi ai lavori di Henry Rousso e Jean-Pierre Azéma), spiccano i contributi di Pascal Ory a partire dalla monografia pionieristica Les Collaborateurs 1940-1945, edita nel ’76 e ristampata nei tascabili una sola volta nel 1980, ora al centro di un corposo volume, Ce côté obscur du peuple (Bouquins «La collection», pp. XXV-959, € 32,00) in cui l’Accademico di Francia e anziano sorbonnard riunisce studi sull’anarchismo di destra, sul fascismo e più in generale su genesi e storia del populismo. Storico della cultura con qualche ottimo trascorso nella letteratura vera e propria (e si veda il suo Nizan. Destin d’un révolté, 1985, riproposto nel 2005 dalle Editions Complexe), con Les Collaborateurs, un’opera tuttora insuperata sull’argomento, egli introduce preventivamente una serie di opportune distinzioni d’ordine cronologico e geografico fra Parigi e la Francia rurale, fra il tempo della Drôle de guerre, la Disfatta, e l’insediarsi di un nuovo regime, per arrivare a quella, capitale, fra i «collaboratori» più o meno opportunisti, prevalenti nel ’40 sotto l’egida patriottica del Maresciallo nella cosiddetta Zona libera, la Francia centromeridionale, e invece i «collaborazionisti», i famigerati collabos, attivi sostenitori del nazifascismo la cui posizione diviene egemonica sui giornali e alla radio quando, nel ’43-’44, il paese è oramai integralmente controllato dai tedeschi e a Vichy viene meno ogni parvenza di governo autonomo: va da sé che gli interessati «collaboratori» sono industriali e commercianti specie se legati alla produzione di guerra, così come la più parte degli impiegati pubblici e dei burocrati attivi negli apparati statali, mentre «collaborazionisti» sono all’estrema destra gli ultimi eredi della Action Française (però stanchi del vetusto nazionalismo germanofobo e del tradizionalismo di Maurras), insieme con gli esponenti di un socialismo-nazionale fortemente anticomunista (e lì infatti prendono corpo i raggruppamenti politici di Jacques Doriot e di Marcel Déat) nonché i nazisti della prima come dell’ultima ora, fanatici antisemiti fra cui, tristemente celeberrimi, Robert Brasillach, Lucien Rebatet, Pierre Drieu La Rochelle e lo stesso Louis-Ferdinand Céline che, se pure alla sua maniera delirante, fu un convinto collaborazionista.

In proposito, Ory cita una frase dell’esteta filonazista Alphonse de Châteaubriant («La Germania sa ciò che vuole la Francia. E a volte lo sa meglio della Francia stessa») cui però ha risposto in anticipo nel ’39 Raymond Queneau con il romanzo Un rude hiver (Un rude inverno, Einaudi 2009): «Dopo tutto, la Francia, che cos’è? È il paese dei Franchi. E che cos’erano i Franchi? Dei tedeschi. In fondo la parola Francia è sinonimo della parola Germania». Di rincalzo, sarebbero sufficienti le immagini di un bellissimo film di repertorio, L’oeil de Vichy (1993), a firma di Claude Chabrol su soggetto di Paxton e Azéma.

Forte di uno stile elegante e chiaro anche quando letterariamente sostenuto, Ory si concentra su quella che diremmo la zona grigia o meglio sui nessi che stringono le posizioni di quanti ritengono l’Occupazione una fatale calamità cui rispondere con lo spirito di sopravvivenza e le armi dell’opportunismo (è il caso appunto della collaborazione economica e amministrativa) e quanti viceversa la ritengono una esclusiva eredità della Francia profonda. Non è affatto un caso che i responsabili della testata collaborazionista per antonomasia, «Je suis partout» (il settimanale nazificato già nel ’41 che arriverà alle 300.000 copie di tiratura), provengano tutti o dalle fila della destra conservatrice e patriottarda o direttamente dalla redazione della Action Française, come nei casi di Robert Brasillach e Lucien Rebatet. Se il primo pagherà con la vita alla Liberazione non tanto l’estetismo fascista (e andrebbe letto il suo notevole memoriale Nôtre avant-guerre, 1941, mai tradotto in italiano) quanto, da caporedattore, le reiterate delazioni del giornale ai danni di ebrei e resistenti, al contrario Rebatet, condannato a morte dopo la Liberazione, verrà amnistiato dal governo di Auriol nel 1952, in piena Guerra Fredda.

A Rebatet, in origine un brillante critico d’arte, musicale e cinematografico, si deve il massimo successo letterario dell’Occupazione, Les décombres (’42) per cui si parla di 100.000 copie, un libello di seicento pagine che quanto a violenza atrabiliare batte in breccia Céline e rappresenta sia la liquidazione della Francia repubblicana sia la somma ideologica dell’hitlerismo e dell’antisemitismo de race in vista di una Europa finalmente unita dalla svastica: interdetto sin dal dopoguerra, Les décombres è dal 2015 leggibile da Laffont nella ricca edizione critica curata da Bénédicte Vergez-Chaignon e prefata dal medesimo Pascal Ory. (Ma un discorso a parte meriterebbe la figura davvero complessa e inquietante di Lucien Rebatet che nel ’52 dall’ergastolo di Clairvaux, le catene ai piedi, scrive e pubblica da Gallimard quello che George Steiner definì uno dei maggiori romanzi del Novecento, la sublimazione della lotta mortale che attraversa il secolo, I due stendardi, adesso disponibile nelle Edizioni Settecolori per la meritoria versione di Marco Settimini). Scrive in conclusione Ory: «Falliti, minoritari, esclusi convergono effettivamente sul potere tedesco, e ogni collaborazionista è passato, un po’ prima o un po’ dopo, attraverso una rottura con il padre Maurras, con la madre Sinistra o, quanto agli stipendiati, con il buon vecchio Regime asessuato». Del resto Ory confessa che una prima idea del suo libro gli venne da Lacombe Lucien (’74), il film scritto da Patrick Modiano e girato da Louis Malle, la storia di un ragazzo passato in un attimo dalla Resistenza alla Milizia fascista.

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