Il romanzo cinese degli ultimi trent’anni ci ha abituato a una rappresentazione del reale che oscilla fra il tragico e il grottesco, tra il farsesco e il teatrale, tra locali specificità e ansie globali. Sia quando riflette su comunità rurali per noi lontane, sia quando fotografa uno stile di vita urbano, carico di futuristiche variazioni sul tema della saga famigliare, sia quando sposa un genere (come nell’acclamato exploit della fantascienza) si percepisce la costante pressione della società e della politica sui destini – finzionali e reali – degli individui.

Si distingue, almeno in parte, da questi condizionamenti la ricerca narrativa di Ge Fei, scrittore colto, amante dei rompicapi intellettuali, che, pur riproponendo la sua critica al fardello sociale gravante sull’esistenza degli individui in Cina, la inserisce – nel romanzo Il mantello dell’invisibilità (tradotto ora per Fazi da Barbara Leonesi e Caterina Viglione, pp. 133, € 18,00) in una introspezione che arriva a penetrare la natura ontologica dell’essere umano.

Fin dai suoi esordi, negli anni Ottanta, come autore d’avanguardia e poi nel resto delle sue opere, Ge Fei dispiega in trame complesse la sua visione pessimistica di una realtà che si mantiene opaca, inspiegabile, decisamente ostile alle aspirazioni e ai desideri umani.

Nel fascino della musica classica e nella perfezione tecnologica di raffinate apparecchiature di riproduzione musicale sta l’unica via di fuga per il protagonista, il signor Cui, un tecnico audio assillato dalla crudele insoddisfazione per la sua vita, che gli è sfilata via tra le mani, mentre ogni affetto gli veniva negato: quello del padre, taciturno tecnico delle radio, di una moglie adorata che lo ha inopinatamente tradito, della sorella maggiore, sposata a un uomo bieco e insopportabile, della madre morta, sagace custode del suo futuro.

Quasi cinquantenne, l’uomo si guadagna da vivere nella Pechino del nuovo millennio assemblando stereo di alta qualità per professori saccenti e nuovi ricchi privi di qualsiasi genere di cultura: due categorie di persone che sembrano lo specchio di una Cina dinamica e arrogante, biecamente materialista e incapace ormai di valorizzare il proprio passato. Costretto a restituire alla sorella la casa dove abita sin dal divorzio, il signor Cui si getta nell’ultimo grande affare che sembrerebbe permettergli l’acquisto di una dignitosa abitazione nelle campagne intorno a Pechino: dovrà allestire l’impianto più ambizioso e sofisticato della sua carriera per un misterioso e inquietante magnate pechinese. Sin dalla prima visita nella sontuosa villa di Ding Caichen, in una periferia suggestiva, Cui intuisce d’avere imboccato un percorso pericoloso, che lo porterà a una contiguità eccitante ma sinistra con l’oscura presenza di persone attraversate dalla malvagità.

L’uomo che gli ha commissionato il costoso e raffinatissimo sistema stereo è un analfabeta musicale, forse un bruto. Rinchiuso in una specie di bunker sulle colline intorno a Pechino dolcemente arrossate dall’autunno, condivide il suo tetro isolamento con una donna dal volto sfigurato, che entra nella vita di Cui sommessamente e a sorpresa, quasi l’eco di quella profezia di tardiva felicità che gli aveva preannunciato la madre morente.

Maestro di narrazioni sospese e sottilmente perturbanti, Ge Fei gioca ancora una volta sul tema del destino personale e sull’inanità della progettazione umana. La clamorosa scomparsa del ricco malavitoso sembra infrangere i piani di Cui, al quale nemmeno il vecchio amico Jiang Songping, anche lui nuovo ricco della Pechino più cinica, porta soccorso. Spinto dai debiti e da un esistenziale istinto di improvvisazione, Cui si trasferisce nella villa-bunker per convivere con la donna sfregiata, metafora di una bellezza infranta, e dell’orrore che a volte sfiora le nostre vite, deturpandole per sempre.

Altre figure popolano questo breve e intenso romanzo, dallo stile tagliente sebbene pensoso, meno allusivo di precedenti opere narrative di Ge Fei. La prospettiva centrale resta comunque saldamente affidata a Cui, il tecnico di impianti stereo, l’uomo comune che si fa tramite di una visione lucida, trasversale, veridica, della Cina di oggi. Evidente, nella costruzione del personaggio-Cui, che agisce da saggio contrappunto,  il tentativo di uscire dal bozzolo di quel genere di intellettuale moderno che è allo stesso tempo critico sprezzante e artefice della volgarità del presente.

Tema insinuante (quasi ossimorico) del romanzo,  la bellezza e la sua negazione (invisibilità), di fronte alla quale l’essere umano e la modernità sembrano sempre più sordi e ciechi. Come di consueto, anche qui lo stile narrativo è basata sugli spazi vuoti e sul non detto più che su quella verbosità tipica di altri narratori cinesi contemporanei; e anche l’intreccio si rende prezioso proprio grazie alle sue lacune.

Rispetto alle due altre prove narrative già pubblicate in Italia – un diverso romanzo del mistero, Il nemico (Neri Pozza, 2006), ancora immerso nelle nebbie stilistiche dell’avanguardia del non-tempo e non-luogo, e l’esercizio calviniano La cetra intarsiata (Fahrenheit 451, 2000) questo lavoro recente rivela un osservatore più pacato e più capace di riflettere sulle «magnifiche sorti progressive» del suo paese, restituendo al lettore un’immagine diversa dei contrasti cinesi odierni. Narratore colto e maturo, Ge Fei sorprende infatti per l’equilibrio con cui dosa e maneggia la pesantezza di una società liquida e la rarefatta nostalgia per una grazia divenuta inattingibile.

Nel solco della tradizione contemporanea del romanzo cinese, anche Il mantello dell’invisibilità approfitta del tono meditativo della narrazione interrompendo sovente il fluire degli eventi per ricostruire alcuni tasselli della storia cinese attraverso i ricordi personali di Cui: la sua è una sorta di memoria sonora, fatta di canzoni popolari ascoltate da ragazzo durante la Rivoluzione culturale o di celebri arie classiche – da Beethoven a Satie: tanto nel riprodurre il respiro musicale della scrittura quanto nel ripercorrere la struttura stessa del romanzo, le traduttrici offrono un’ottima prova, resa più impervia anche dalla necessità di rendere le sofisticate descrizioni di attrezzature per audiofili, che funzionano da geniale tessuto metaforico del testo.

Come nella Trilogia del Jiangnan – opera complessa che descrive attraverso tre epoche della Cina moderna il fallimento delle utopie novecentesche – anche qui Ge Fei torna a tessere la trama di un sottile disincanto, indicando nella musica l’ultima utopia rimasta, invisibile difesa contro il truce realismo contemporaneo. Così com’è soggetta a svanire la melodia di un brano musicale, anche la bellezza sfugge alla materia, annidandosi in impalpabili emozioni; ma di quella materia è pur sempre il prodotto – come suggerisce la quasi ossessiva insistenza del protagonista sui dettagli tecnici degli impianti Hi-Fi – ciò che indica la necessità di accettare il mondo reale quale è, prendendo atto del fatto che anche la bellezza più astratta si genera da una matericità solida e cruda.