Visioni

Garrone: «La violenza che rappresento è più psicologica che fisica»

Garrone: «La violenza che rappresento è più psicologica che fisica»Matteo Garrone

Cannes 71 Il regista - in concorso con «Dogman» - parla della lavorazione del film liberamente ispirato alle vicende del canaro della Magliana

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 17 maggio 2018

Il progetto è nato 12 anni fa, prima che Matteo Garrone cominciasse a girare Gomorra – e ieri finalmente il regista ha presentato il suo Dogman, liberamente tratto dalla vicenda di cronaca nera del canaro della Magliana, in concorso al Festival di Cannes. Ad accompagnarlo ci sono i due protagonisti del film: Marcello Fonte, nel ruolo del «canaro», ed Edoardo Pesce in quello della sua vittima e aguzzino, l’ex pugile Simoncino. «Il suo personaggio doveva incutere timore – dice Garrone – per questo ha dovuto fare un lavoro di preparazione molto fisico. Abbiamo anche lavorato in sottrazione: pensavamo che per essere più efficace Simoncino avrebbe dovuto parlare pochissimo e avere una visione della vita di lì a pochi minuti». Protagonisti del film sono anche i cani, amatissimi dal protagonista che lavora con loro: «Nel cinema c’è sempre la paura di lavorare con i bambini e con i cani, perché sono imprevedibili. Per me invece non sapere mai cosa faranno è la cosa più bella».

Perché aspettare tanto tempo per portare questa storia sullo schermo?

È una storia con cui ho avuto un rapporto altalenante nel corso degli anni: c’erano delle cose che mi affascinavano e altre che mi allontanavano. La parte più violenta, della tortura, mi respingeva per molti motivi. Mi sembrava di averla già vista al cinema, anche in film che ho amato come Un borghese piccolo piccolo e Cane di paglia, in cui il personaggio buono si trasforma in mostro. Girando 12 anni fa inoltre non sarei riuscito a raccontare come ho fatto il rapporto tra padre e figlia – perché ancora non avevo avuto mio figlio – e ci sarebbero stati ancora troppi residui di quello che si dice sia stato il fatto di cronaca. Ma nessuno sa veramente come siano andate le cose, e personalmente non mi interessa neanche saperlo.

Qual è il legame del film con la vicenda del canaro?

È solo un punto di partenza, ma poi il film prende una direzione del tutto autonoma e indipendente. Non ho nessun interesse nel ricostruire le cose come si dice che siano andate. Per me lo spettatore ideale è quello che non ne sa nulla: abbiamo cercato di scrivere una storia il più possibile universale. La violenza nel film è più psicologica, legata all’incubo di una persona mite che si ritrova intrappolata in meccanismi di violenza dai quali non sa come uscire.

Come ha lavorato con Marcello Fonte?

Ho immediatamente capito che Marcello poteva riuscire a dare a quel personaggio tutte le sfumature che per me erano necessarie: la leggerezza, la dolcezza, l’umanità. Quando l’ho visto ho pensato a uno dei miei miti di sempre, Buster Keaton, e infatti Dogman ha anche un legame con il cinema muto: Marcello recita con gli occhi e ha una comicità che viene fuori in modo naturale. Per questo l’ho immaginato come una sorta di Buster Keaton moderno.

Per definire «Dogman» ha parlato anche di western 

L’ambientazione è una sorta di terra di frontiera, metafora di un luogo della società contemporanea. Quindi era necessario trovare un posto dove il rapporto del protagonista con le persone del villaggio – fondamentale per la storia – fosse vivo, caldo. Abbiamo girato al Villaggio Coppola, a Castel Volturno, che per me è appunto un luogo di frontiera. Era un parco meraviglioso costruito negli anni settanta per gli americani della base Nato, che poi si sono spostati altrove e quel posto è caduto in una lenta ma inesorabile depressione. L’avevo scoperto con L’imbalsamatore, ci sono tornato con Gomorra, e trovo che abbia una componente metafisica e sospesa che gli conferisce quell’astrazione che per me è necessaria.

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