Garcia Linera: in Bolivia inflitta alle destre una «sconfitta strategica»
Intervista Mentre a La Paz si contano le schede, parla l’ex vicepresidente Alvaro Garcia Linera: la scelta dell’esilio, le ingerenze Usa, i successi e gli errori con Evo. E ora il Movimiento al socialismo che si riprende il palazzo da cui era stato cacciato un anno fa dalle forze golpiste: «I più umili si sono sollevati hanno cambiato la storia»
Intervista Mentre a La Paz si contano le schede, parla l’ex vicepresidente Alvaro Garcia Linera: la scelta dell’esilio, le ingerenze Usa, i successi e gli errori con Evo. E ora il Movimiento al socialismo che si riprende il palazzo da cui era stato cacciato un anno fa dalle forze golpiste: «I più umili si sono sollevati hanno cambiato la storia»
Scorre il conteggio dei voti nel lentissimo e corruttibile sistema elettorale della Bolivia, scorre e ogni ora che passa si conferma l’incredibile. Il Movimiento al socialismo si è ripreso il paese. Quasi un anno dopo il golpe, nel paese che detiene il record mondiale di colpi di stato – oltre 180 dopo l’indipendenza dall’impero di Spagna – la sinistra ritorna attraverso le urne nel palazzo da cui era stata cacciata.
[do action=”citazione”]Ritorna, ma ha perso per strada il suo leader carismatico, l’ex presidente Evo Morales, e il suo vicepresidente Alvaro Garcia Linera, el Evo y el Alvaro, il braccio e la mente di una rivoluzione non ancora finita.[/do]
Come Evo, Alvaro è esule a Buenos Aires, fuggito in Messico e poi in Argentina dopo che Luis Almagro mise tutto il peso dell’Organizzazione degli stati americani (Osa) su quel rapporto che diceva «frode elettorale».
Garcia Linera aveva una valigetta di libri e una di vestiti, una giovane moglie e una figlia di neanche tre anni al collo – e basta. Non un soldo in tasca, i pochi beni e gli stipendi sequestrati dalle autorità golpiste, la segretaria di La Paz arrestata per aver provato a incassare l’ultimo assegno, una rete di amici che gli ha ceduto casa per un giorno, una settimana, un mese, rimbalzando qua e là fino a trovare i soldi per un appartamento grazie a un incarico universitario – lui, intellettuale senza laurea con cinque anni di carcere duro come cursus honorum, guerrigliero dell’effimero Ejercito revolucionario Tupac Katari sgominato all’inizio degli anni ’90: tutti in galera senza processo, tutti assolti decenni dopo. E un fratello, esule anche lui, che un mese fa giurava: ho rifatto tutti i conti, ho applicato un fattore di correzione ai sondaggi telefonici, vinciamo noi con il 52%. Un profeta.
Sorpreso dal risultato delle elezioni?
Sì, molto. È stata la gente più umile che si è sollevata e ha cambiato la storia.
Sicuri di aver vinto? Il tribunale elettorale deve ancora rendere ufficiale il risultato…
Una formalità, finirà presto. Certo con questa gente bisogna essere pronti a tutto, è gente senza scrupoli, nella loro disperazione possono far danni.
E ora? Tornerete in Bolivia?
Vedremo le circostanze. Il nostro desiderio è ritornare, vogliamo farlo in fretta per contribuire a questa lotta così eroica del popolo boliviano, e naturalmente per poterci difendere dalle falsità che durante tutto questo anno i golpisti hanno lanciato contro di noi.
A proposito di accuse, un pensiero per il signor Almagro…
Potrei diventare truculento. Un prodotto delle cloache della diplomazia più imperiale, questo è Luis Almagro.
È stato un errore la rinuncia all’incarico?
No. L’opzione di restare sarebbe stata una convocazione alla guerra civile. Perché l’unico modo di affrontare militari e poliziotti ammutinati che volevano la nostra rinuncia era lo scontro. Significava morti e feriti, e abbiamo detto no, non lo faremo.
C’è qualcosa da imputare al Mas? Ripensando a un anno fa, c’è qualcosa che vorrebbe modificare?
Molte cose. Una di queste è rafforzare il legame tra il livello della dirigenza – sindacale, comunale, sociale – e la base sociale. Il militante del sindacato, quello dell’organizzazione sociale, vanno galvanizzati, sono gli elementi fondamentali perché ci sia un rapporto tra il livello di dirigenza e il livello dell’appartenenza.
Lei parla di «classe media popolare». A cosa si riferisce?
A un prodotto della trasformazione di questi ultimi 14 anni. L’avanzamento dell’uguaglianza ha significato che settori marginali molto impoveriti hanno migliorato le proprie condizioni, i propri guadagni, la loro alimentazione, la loro abitazione, i salari, il risparmio per fare acquisti, mangiare meglio o mandare un figlio all’università, cercando la possibilità di una mobilità sociale. È nata una nuova classe media di origine popolare e indigena, frutto di ciò che abbiamo fatto in questi anni, del fatto che il 25% della popolazione boliviana sia passata dalla povertà a consumi e guadagni medi. Erano i dimenticati di sempre: indigeni, operai, periferie urbane, migranti dell’agricoltura… Ora hanno un salario che è cinque volte tanto, due stanzette con acqua, luce e servizi di base, la figlia studia invece di dover vendere per le strade. Una nuova classe media che però non si è sradicata dalle sue strutture collettive. Ed è una classe media indigena di diversa identità e abitudini rispetto all’antica classe media degli ultimi cinquant’anni, fondata sul cognome e sul colore della pelle, che inseguiva e concentrava privilegi intermedi.
Come reagiranno le destre di sempre? C’è una destra vecchia di secoli che non sparirà.
È una destra ancora molto pericolosa, ma è una destra sconfitta strategicamente, perché ha fondato la sua identità intorno all’odio, al rifiuto, intorno a un solo obiettivo: que no haya indios. Tutto ciò non ha futuro. Potrà governare uno o due anni, come è successo in Bolivia, in punta di fucile, ma non dura. Questo non è un progetto di paese, ed è il grande problema della destra attuale, nel mondo intero e in particolare in America latina: può generare e innervare passioni ma è di corto respiro. Tatticamente può essere feroce, ma strategicamente non ha un orizzonte e intellettualmente è miserabile.
Lo scenario latinoamericano, la sparizione dei governi di sinistra?
Pensi alla destra che li ha battuti, guardi cosa succede con Bolsonaro: hanno il fiato corto, a differenza di ciò che fecero negli anni Ottanta. Quello sì era un progetto di società ad ampio raggio e la società le è corsa dietro, compresi i settori popolari. Oggi hanno un progetto Frankenstein che unisce frammenti scollegati, tenuti insieme solo dall’odio. Finché non ci sarà una nuova destra capace di produrre adesione ed entusiasmo, puoi reggere per un mese, per sei mesi, poi cadi.
Ci sono tracce di nuova destra? In particolare penso agli Stati uniti.
Gli Usa continuano a comportarsi come un impero, ma di fatto cosa offrono? Protezionismo, muri alle frontiere, raccolta di valore extraterritoriale… Infeudarsi è un progetto di futuro? Sono un impero che ha molte risorse e può fare molti danni, ma non riescono a catturare aspettative. Lo hanno fatto trent’anni fa, e sessanta, oggi no. Offrono un neoliberismo appesantito, che non funziona, con una gran confusione sul suo stesso futuro. Ma con tutto il loro enorme potere, quando inciampano possono causare danni enormi al resto del mondo. Sono un gigante instupidito che nel suo disorientamento può calpestare, schiacciare e fare danni.
Gli Usa hanno giocato un ruolo nel togliere Evo e Alvaro dalla Bolivia?
Certo, il governo Usa era molto irritato da quando abbiamo espulso l’ambasciatore nordamericano. Non fu una decisione propagandistica, l’abbiamo trovato cospirando con settori ultra reazionari. Ma questo ha avuto il suo prezzo. L’impero pensa sempre a lunga scadenza, è il vantaggio di avere enormi risorse economiche e politiche, e sono stati molti attenti a qualsiasi minimo segno di debolezza. Tutto si è scatenato quando non abbiamo vinto con più del 50% l’anno precedente. Allora si sono aggiunti la polizia, i militari, i partiti sconfitti, Almagro e tutti quanti, quel numero era la cifra totemica: sotto il 50% potevano colpirci, sopra il 50% dovevano restare zitti.
E oggi?
Stanno zitti.
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