Cultura

Gaëlle Nohant, la memoria in un peluche

Gaëlle Nohant, la memoria in un pelucheAlcune delle schede personali dei deportati conservate nell’archivio di Bad Arolsen / Foto Arolsen Archives

NOVECENTO Intervista alla scrittrice francese che pubblica «L’archivio dei destini» per Neri Pozza. Gli oggetti dei deportati al centro di un romanzo per il 27 gennaio, quando fu liberato Auschwitz. «Quando ho saputo che da Bad Arolsen, un centro creato dagli Alleanti dopo il 1945, volevano restituire ai parenti delle vittime le cose trovate nei lager, ho scelto di raccontarne la storia. Attraverso questi piccoli «testamenti simbolici» si può far luce sulla vita degli scomparsi e far loro ritrovare un posto tra noi: per riparare un legame spezzato dal nazismo»

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 21 gennaio 2024

Quando Irène inizia a lavorare all’archivio dell’International Tracing Service di Bad Arolsen non sa ancora, come ammetterà lei stessa, che «qualche volta cercando i morti, troviamo i vivi». L’archivio dell’Assia, nato nell’immediato dopoguerra su iniziativa degli Alleati, aveva inizialmente la missione di raccogliere ogni traccia rimasta delle vittime dell’orrore nazista: documenti, foto, oggetti personali di coloro che erano stati deportati nei lager e che, molto spesso, non avevano fatto ritorno. All’inizio degli anni 2000, i responsabili dell’archivio sceglieranno però anche di contattare i parenti rimasti dei deportati per restituire loro quegli oggetti, riannodando per quella via un filo della memoria, e dell’amore, che molti avevano creduto perduto per sempre.

È questa la storia che ha scelto di raccontare la scrittrice francese Gaëlle Nohant in L’archivio dei destini che Neri Pozza propone in vista del Giorno della Memoria (pp. 336, euro 20, traduzione di Luigi Maria Sponzilli). Un romanzo, spiega Nohant, costruito come una sorta di «poliziesco al contrario», perché al centro vi è la ricerca delle vittime, che affronta con delicatezza ma anche estrema determinazione la sfida del mantenere la memoria dello sterminio nazista e renderla attiva nel presente, intrecciando il piano della Storia e quello degli affetti e dei legami ritrovati.

Il romanzo si ispira al lavoro dell’archivio di Bad Arolsen: quando ha capito che intorno a quel luogo c’erano delle storie che voleva raccontare?
Ho scoperto per caso l’esistenza di questo particolare centro archivistico, creato dagli Alleati alla fine della Seconda guerra mondiale. E sono rimasta affascinata dal fatto che gli archivisti fossero in realtà una sorta di «detective» che conducevano lunghe e pazienti indagini, spesso anche molto complesse, per far luce sulle vittime del nazismo, in base alle richieste dei loro cari. Ma è stato quando ho appreso che dal 2016 l’archivio ha avviato la missione «Stolen Memory», che mira a restituire ai loro discendenti gli oggetti appartenenti ai deportati trovati in alcuni lager, che ho capito di aver trovato uno splendido soggetto per un romanzo. Questi oggetti umili e d’uso quotidiano, come ne possediamo tutti noi, erano il vettore perfetto per parlare delle tracce della guerra nelle nostre vite, ma anche per interrogarci sulla trasmissione di un passato doloroso.

La scrittrice Gaëlle Nohant

Lei cita Rachel Auerbach, una sopravvissuta del ghetto di Varsavia, che parlava al riguardo «dei singhiozzi degli oggetti morti», paragonandoli a dei corpi senza sepoltura. È questo il compito che vuole portare a termine la protagonista, Irène?
Per me era molto importante scrivere un romanzo per l’oggi. Irène indaga e viaggia alla ricerca dei discendenti dei deportati, che si trovano in tutto il mondo. Così, l’accompagniamo in Germania, Polonia, Francia, a seguire delle tracce che conducono fino all’Argentina o a Salonicco. E nel corso delle indagini, incontriamo persone vive. Testimoni, archivisti, ma soprattutto discendenti, che convivono ancora con questo passato, tanto silenzio e altrettante domande. Restituire questi piccoli «testamenti simbolici» permette di far luce su frammenti della vita degli scomparsi e permette loro di riconquistare il proprio posto in famiglia: una forma per riparare un legame spezzato dal nazismo.

Dal romanzo apprendiamo che in quell’archivio sono custodite più di 17 milioni di schede personali: come ha scelto storie e personaggi, e fino a che punto si è ispirata a vicende e figure reali?
Per prima cosa ho trascorso un anno pensando ai miei personaggi, leggendo la documentazione e perdendomi nei materiali del fondo Arolsen. A causa delle limitazioni dovuto al Covid non ho potuto recarmi subito sul luogo, ma ero in contatto con un’eccezionale investigatrice del centro, Nathalie Letierce-Liebig, che ha lavorato per quarant’anni a favore delle vittime del nazismo. Una persona discreta, umile e straordinaria: i nostri scambi hanno nutrito anche il carattere del personaggio di Irène. Inoltre, mi ero data la regola di scrivere un romanzo che contenesse solo informazioni storicamente vere. Ho letto più di duecento testi di storici e testimoni, e compiuto tutti i viaggi che fa la protagonista nel libro. Mi sono anche affidata a degli archivi reali per crearne di fittizi e tutti i miei personaggi nascono da questa documentazione. Ho costruito delle figure con la fantasia, ma ciò che accade loro nel romanzo è stato vissuto realmente da alcune persone durante la guerra. E mentre lavoravo al libro, pensavo ogni istante alle persone che avevano vissuto davvero queste stesse situazioni e con cui ho avuto l’impressione di scrivere il romanzo: un certo numero di fantasmi che dovevo accogliere e rispettare.

Gli oggetti che «raccontano» ci parlano anche della solidarietà e della determinazione dei deportati, capaci di un gesto verso gli altri o di immaginare un futuro in mezzo alle tenebre, come il Pierrot di peluche di Lazar. Come è nata la sua storia?
Leggendo i documenti sul campo di Treblinka mi sono imbattuta in un brano in cui un sopravvissuto, un ebreo di origine ceca, descrive le pile vertiginose di oggetti, appartenenti a persone appena uccise, che dovette smistare sotto i colpi delle SS. E un giorno si era reso conto che la sua vita era legata a questi oggetti: finché ce n’erano da sistemare lo lasciavano in vita, altrimenti sarebbe stato ucciso come gli altri. In quel momento ho visto una figura afferrare questo piccolo pupazzo di stracci a forma di Pierrot e nasconderlo in tasca, come un talismano. Questo è il certificato di nascita di Lazar… Poi ho costruito l’indagine che porta da Pierrot a Lazar, e ai suoi discendenti. Quando ero perplessa su qualcosa, chiedevo consiglio a Nathalie Letierce-Liebig: «Cosa faresti al posto di Irène?». Ho inventato gli oggetti che compaiono nel romanzo, ma Nathalie mi ha rassicurato dicendo che tutti sarebbero potuti esistere nella realtà. Ad esempio, un giorno ad Arolsen ricevettero un fazzoletto ricamato da delle deportate di Ravensbrück. Nel romanzo, questo fazzoletto rappresenta quella solidarietà che ha salvato molte vite nei lager e continua a salvarne ancora oggi. Non volevo scrivere un romanzo sulla morte, ma sulla vita. L’orrore è inevitabilmente presente, ma ho scelto di illuminare tutte le modalità per rimanere umani nel cuore dell’inumanità, tutte le forme di amore, coraggio, solidarietà.

A Bad Arolsen giungono anche oggetti conservati presso le famiglie dei carnefici, come quelli di una donna tedesca già guardiana del lager femminile di Ravensbrück. Il romanzo non interroga solo la memoria, ma anche la responsabilità e il ruolo che ciascuno scelse di giocare in quella tragedia?
Certo. Esistono molti archivi privati di questi «ausiliari ordinari» del nazismo, ma la maggior parte dei materiali non arriva dalle famiglie, senza dubbio perché quest’eredità è molto complicata e pesante da gestire per i discendenti. I tedeschi sono stati a lungo accusati come se fossero stati «predisposti al genocidio». Mettendo a confronto quanto accaduto allora con altri genocidi avvenuti altrove, gli storici fanno ora notare i punti e i meccanismi che in determinate circostanze possono trasformare persone pacifiche in autentici carnefici. Elsie, la guardiana di Ravensbrück del romanzo, non è un mostro. Eppure lo diventerà, perdendo la propria umanità, perché è molto difficile resistere alla disumanità quando questa diventa il quadro di riferimento in cui si è immersi. Si tratta comunque di un quesito decisivo che rimanda alla nostra responsabilità individuale di fronte alle forme di disumanità a cui potremmo partecipare anche indirettamente o scegliendo di non vedere.

A proposito del campo di Treblinka, di cui i nazisti cercarono di cancellare le tracce livellando il terreno e piantando alberi sopra le fosse comuni, riprende le parole di Vasilij Grossman che arrivando sul luogo nel 1944 notò che quella terra «risputava in superficie degli oggetti, delle tracce». Anche nelle pagine del romanzo riemergono oggetti e, per questa via, vite che rischiano di essere dimenticate?
Assolutamente. Irène non restituisce solo oggetti che ritornano dall’Inferno. Li utilizza per cercare di restituire un po’ di quelle vite spezzate ai loro discendenti. In questo romanzo ho scelto di ricostruire i ritratti (ovviamente incompleti) di alcuni personaggi, come altrettanti frammenti di un puzzle che Irène scopre durante le sue indagini. Ad esempio, Eva, una donna sopravvissuta ad Auschwitz, prima di essere deportata, era una persona molto diversa di quando la incontriamo. Attraverso le ricerche che vengono condotte nel libro, i lettori potranno però fare la sua conoscenza anche in altri momenti della sua vita. Queste esistenze dimenticate, o in parte cancellate a causa della perdita di ogni legame, sono uniche e preziose. Per questo vedo Irène come qualcuno in grado di rammendare la trama di un arazzo strappato, restaurare frammenti di vite e di storie.

Irène è francese ma si imbatte in Germania, a Bad Arolsen, nelle tracce della deportazione e dello sterminio e, alla fine del suo percorso, si rende conto che anche suo nonno Jean, un ferroviere taciturno, raccoglieva i messaggi lanciati dai treni dai deportati, spesso l’ultimo saluto ai loro cari. La storia di cui è protagonista le appartiene da molti punti di vista?
Irène pensa di essere arrivata per caso all’International Tracing Service. Ma questo è vero solo in parte, perché, come dice Eva che diventerà il suo mentore nel libro, «non si arriva mai qui per caso». Anche se non ci sono stati deportati nella propria famiglia, c’è stato necessariamente un momento in cui la guerra ha avuto un impatto sulle nostre vite, come un trauma universale che si trasmette da una generazione all’altra. Irène scoprirà, facendo luce sul destino degli altri, il legame che la collega a questa storia.

Con il passare degli anni ci si interroga sulla fine dell’«era dei testimoni» e su come affrontare la scomparsa di chi sopravvisse allo sterminio per parlare alle nuove generazioni: attraverso le vite che raccontano questi oggetti, il vostro romanzo offre un contributo narrativo in questa direzione?
Lo spero, e comunque questo era anche il mio obiettivo. Ho scelto di scrivere un romanzo perché questa storia raggiunga anche un pubblico che non legge necessariamente i documenti storici che ho consultato io per scriverlo. Penso che la narrativa possa essere utilizzata a questo scopo, purché autori e autrici abbiano un approccio onesto e rigoroso. Adesso che i testimoni stanno scomparendo, i discorsi dei negazionisti occupano la scena, «il dovere della memoria» non sempre arriva a parlare alle giovani generazioni. Perciò è importante trovare delle forme contemporanee per far vivere questa storia, permettendogli di illuminare il nostro presente. Per questo ho voluto che il mio libro fosse anche una riflessione sulla memoria e sul «romanzo nazionale», tenendo conto delle domande che ci si pongono oggi per combattere il fascismo e ogni forma di negazione dell’umanità.

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