Narendra Modi non poteva scegliere una sede più controversa di Srinagar, la capitale del Kashmir, per uno degli appuntamenti preparatori che precedono il 18mo summit del G20 a Delhi il prossimo 9 settembre. Scegliere la capitale di una regione sotto duro controllo militare, contesa da oltre settant’anni e recentemente privata della sua autonomia da un golpe costituzionale, non poteva che suscitare polemiche che sono arrivate prima di tutto dal Pakistan e poi dalle Nazioni Unite.

Ma se il Pakistan non è membro del G20 e le Nazioni unite sono solo un osservatore, Pechino – uno dei principali attori di questo consesso di 19 Stati membri più la Ue che conta le maggiori economie mondiali – ha deciso di boicottare il summit e non si è presentata ieri all’apertura della tre giorni del Gruppo di lavoro sul turismo.

UN TURISMO di cui tra l’altro una città blindata – dove però il governo ha dato ordine di tenere i negozi aperti – e sotto tutela di esercito e polizia tutto può essere ma non la meta turistica famosa che, al tempo della colonia, era una deliziosa stazione per sfuggire i calori della pianura.

La mossa di Pechino si è trascinata dietro la scelta di altri Paesi che, chi più chi meno palesemente, hanno deciso di seguirne l’esempio: Turchia, Egitto, Arabia saudita, quest’ultima – secondo la stampa indiana – con l’invio solo di soggetti privati e non del governo. E così molti altri che, anziché scomodare burocrati o politici dalle loro capitali, hanno preferito inviare il personale diplomatico di stanza a Delhi.

Un pasticcio insomma, che segna un neppur troppo piccolo fiasco di Modi, il roboante ultranazionalista premier indiano che sul G20 ha puntato molto. Pimpante per aver fatto la sua parte al G7, in un abile equilibrismo tra occidentali e russi, Modi ha anche annunciato che Delhi ospiterà il prossimo Quad, il Quadrilateral Security Dialogue che riunisce Australia, India, Giappone e Stati uniti. Starà forse più attento nel scegliere la sede?

La posizione di Pechino, che con Delhi ha rapporti molto tesi, è chiara: non si può tenere un incontro di questo livello in «territori disputati». È il seguito ideale di un’attitudine generale che riguarda altri contenziosi territoriali come Ladakh o Arunachal Pradesh, già teatro di scontri tra India e Cina.

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Per Turchia, Egitto e Arabia saudita, Paesi dell’Organizzazione della Conferenza islamica, la cosa è diversa. Il Kashmir ha una storia controversa poiché, quando l’India divenne indipendente nel 1947, il maharajah indù che governava un popolo di musulmani optò per l’India e non per il Pakistan. Nehru aveva fatto di tutto per accaparrarsi una delle regioni più ricche del Raj e non era certo favorevole a un referendum.

IL NEONATO Pakistan non digerì la scelta e scatenò la prima guerra. Ne seguirono altre tre con continue scaramucce tra i due Paesi mentre il Pakistan sostentava, anche con infiltrazioni di gruppi terroristici, le ragioni della resistenza kashmira nella regione sotto controllo indiano.

Il 5 agosto 2019, il fattaccio: Modi decreta la revoca degli Articoli 370 e 35A della Costituzione indiana, che riconoscevano allo Stato di Jammu e Kashmir (J&K) un’ampia autonomia. Il J&K cessa di essere uno «Stato» per diventare «Territorio dell’Unione» amministrato da Delhi. La reazione è forte: la rete web per esempio sarà ripristinata solo dopo 550 giorni di blocco totale. La regione resta militarizzata, la libertà di stampa limitata.

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Abrogare l’Articolo 370 non è solo un atto simbolico: fa decadere la norma che vietava ai non kashmiri di acquisire proprietà nel J&K. Ora investitori di altri Stati indiani possono comprare terre, avere concessioni minerarie, avviare imprese. Anche turistiche, ovviamente.