«Just when Sam Cooke’s new song / comes on». Da una vecchia radio crepitante parte a tavoletta la nuova canzone di Sam Cooke: il momento è catartico, forse terapeutico. Di quale pezzo si tratta? La lirica in questione, This Conflict, non lo dice: è scritta dal poeta Frank Stanford nel 1973, Cooke è morto da quasi dieci anni…

Cresciuto nel Delta del Mississippi – negli stessi territori leggendari in cui transitavano nottetempo Robert Johnson, Charley Patton, Muddy Waters, John Lee Hooker –, Stanford è un «Rimbaud topo di palude» (secondo Lorenzo Thomas), un autore di culto ristretto persino in America, un beatnik dal salmodiare in chiave R&B, graffiante e viscerale al pari della voce di Cooke all’Harlem Square Club di Miami in una memoranda sera del ’63. Con Acqua segreta (a cura di Luca Dipierro, Interno Poesia, pp. 242, € 18,00), un’antologia che dà conto di otto delle dieci sillogi di Stanford, si può avere una larga idea della sua prolifica attività letteraria. Classe ’48, trasferitosi in Arkansas con la famiglia adottiva, Frank – come osserva Dipierro nell’introduzione – «passa l’infanzia tra gli accampamenti dei lavoratori neri al servizio del padre (ingegnere costruttore di argini, ndr), entrando in contatto con una delle realtà più marginali della cultura afroamericana. La vita nei levee camps lungo il fiume Mississippi è l’esperienza di un mondo pericoloso e magico, violento e sensuale, cadenzato sui ritmi dei canti di lavoro». Va a scuola dai benedettini alla Subiaco Academy, frequenta l’università e la abbandona poco dopo. Sposa la pittrice Ginny Crouch, diventa agrimensore, pratica le arti marziali (indossando spesso il kimono). Fonda la casa editrice Lost Roads con C.D. Wright, poetessa talentuosa. Il viaggio terrestre di Stanford si interrompe tragicamente a ventinove anni: è il 3 giugno 1978.

«La maggior parte della mia vita non l’ho passata in mezzo ai bianchi», confessa ad Alan Dugan. Non a caso, i personaggi delle sue poesie hanno nomi da bluesmen arcaici (Baby Gauge, Charlie B. Lemon, Mose Jackson, BoBo Washington). Sono le stesse sulfuree apparizioni del Deep South di Flannery O’Connor: vagabondi, reduci di guerra, derelitti, donne segnate, giocatori d’azzardo. Nota ancora Dipierro: «La parlata dei neri dell’Arkansas è una voce che Stanford non deve imitare, ma che padroneggia perché scaturisce dal suo vissuto: una cadenza da cantastorie, influenzata anche dalle sonorità del jazz, del blues, del gospel». Testi come I fratelli di sangue, L’uccello del Vangelo, Funerale sull’isola, Il vento soffia su un uomo malato ne sono un chiaro esempio: «L’estate è quasi finita, il fiume è in magra, / Il sole si allenta / Come il filo arancione / Che con un morso staccavo sempre da un paio di calzoni nuovi. // Più si allontanano lungo la strada / Più le loro voci si avvicinano».

La mitologia del fiume e la crudezza narrativa delle modulazioni di Stanford lo avvicinano a Twain e a Faulkner, però filtrati da ariose vetrate di surrealismo. Si pensi al suo opus magnum, il poema The Battelfield Where The Moon Says I Love You (Il campo di battaglia dove la luna dice ti amo; qui non compreso per motivi di spazio), «un flusso ininterrotto di immagini storie sogni che scorre per più di quindicimila versi, senza divisioni in strofe o segni di interpunzione, un Beowulf gotico abitato da personaggi indimenticabili, come il narratore Francis Gildart (nome di battesimo di Stanford), un ragazzino veggente di dodici anni convinto che Charlie Chaplin sia suo padre; il Conte Hugo Pantagruel, “l’uomo più piccolo del mondo”; Vico, il sordomuto che si esprime a gesti durante il sonno; Sylvester, l’Angelo Nero. La mole di riferimenti è inarrestabile: Beethoven e Cervantes, le battaglie per i diritti civili degli anni ’60, King Vidor, Chuck Berry, la guerra del Vietnam, Moby Dick, Francesco d’Assisi, Elvis». Un minestrone di visionarietà e vitalismo. A dispetto della continua evocazione della morte.

La mistura di epica e parodia emerge nitidamente anche in Acqua segreta: appaiato all’enumeratio biblica, ancora mutuata dagli spirituals, c’è sempre in agguato lo spettro del trapasso, punto focale del suo imagery: «Sto pensando ai morti / Che sono ancora tra noi. / Non sono come noi, sono / Giovani e belli, / Mentre nella pioggia vanno / A incontrare gli amanti. / Per strada con i loro ombrelli scuri, / Sempre a ridere, così svelti, / Come rami che sibilano / In una barca prima di notte, / Così tenaci, / Come i galleggianti di vetro / Che usano i pescatori in Giappone. / Ma non c’è luna per loro, / Per noi le stesse notizie / Che non riceviamo» (Sognato da un uomo in un campo). Stanford è un poeta che prova costantemente a uscire da visuali prevedibili per innestarsi su linee elastiche, mobili, lungo sequenze cinematografiche sfalsate. Tecnica di montaggio che ha imparato dal modernismo di William Carlos Williams e dalla Beat generation (Allen Ginsberg è un suo estimatore), ma che ripropone con una certa originalità, esasperando il conflitto tra mondo reale e mondo onirico. Così accade in Il persico: «Salta in alto / contro la notte, / tintinnando le branchie / e gli ami / nel dorso. / L’indiano dice / che è come un’oca / che passi davanti / alla luna». Eppure, nelle profondità del verso di Stanford – nel mezzo del magma dei referenti indistinti – agisce in maniera inattesa una nostalgia struggente: «O Dolce Gesù gli argini che franano nel mio cuore».