L’uccisione di Nahel riapre il dibattito sull’uso della violenza istituzionale nei confronti delle minoranze razzializzate dei quartieri periferici. Françoise Vergès, politologa e militante femminista e decoloniale, nel suo libro Una teoria femminista della violenza. Per una politica antirazzista della protezione (traduzione di Gianfranco Morosato, Ombre Corte, 2021), spiega fino a che punto queste comunità siano oggetto di una costante e inaudita violenza istituzionale.

L’omicidio di Nahel M. ha portato all’attenzione pubblica francese l’aumento delle morti per mano delle forze dell’ordine. Il politologo Sébastien Roché parla di «banalizzazione della violenza poliziesca».

Per decenni ci sono stati omicidi impuniti di giovani neri e arabi e i discorsi razzisti sono stati banalizzati da media ed estrema destra. I partiti fascisti sono stati normalizzati, mentre il vocabolario veniva manipolato per trasformare gli agenti di polizia in vittime e nei quartieri popolari i servizi pubblici subivano un forte smantellamento. Da anni, gruppi come «Urgence notre police assassine» e il «Comité Adama» denunciano che i vari governi hanno dato alla polizia la licenza di uccidere. La legge del febbraio 2017, promossa dal ministro degli Interni del governo socialista di François Hollande, ha ampliato le condizioni in cui gli agenti possono usare armi da fuoco in caso di resistenza a pubblico ufficiale, autorizzandoli a sparare «quando non sono in grado di immobilizzare, se non con l’uso delle armi, i veicoli». Nel 2022 tredici persone sono morte durante i controlli della polizia stradale. E i responsabili sono rimasti impuniti. La legittima sensazione di impunità della polizia sta alimentando una rabbia altrettanto legittima. I responsabili della violenza razziale sistemica – lo Stato e le sue istituzioni – accusano automaticamente le vittime di essere colpevoli della violenza subita. Cercano di infangarle, inventano per loro precedenti penali. E mentono. La polizia ha mentito su Nahel e, se non fosse stato per il video di un passante, la sua versione sarebbe diventata quella ufficiale. Sotto i governi Sarkozy, Hollande e ora Macron, discorsi e leggi hanno continuato a banalizzare la violenza della polizia. A ciò si aggiunge lo scioglimento nel 2021 delle organizzazioni in difesa di musulmane e musulmani, che precede quella della rete ecologista Soulèvements de la Terre. E ancora prima la repressione dei Gilets Jaunes e delle altre manifestazioni. Spesso con l’uso di armi «meno letali», cioè comunque in grado di uccidere ma «leggermente meno» di un colpo diretto. Il razzismo nella polizia, poi, fa eco al razzismo dei candidati alla presidenza (Éric Zemmour) e delle istituzioni. C’è razzismo ambientale, nell’accesso alla sanità pubblica, all’istruzione, alla casa, al lavoro e alla libertà di movimento. Per questo è un fenomeno strutturale.

Françoise Vergès

Nei suoi libri parla di violenza istituzionale. A che si riferisce?

Per strada, al lavoro, all’università un uomo sarà innanzitutto nero, arabo, autoctono, asiatico. Lo spazio pubblico non è neutro. A questo proposito voglio ricordare il pestaggio nel novembre 2020 di Michel Zecler, un produttore rap di 41 anni, da parte di agenti di polizia mentre tornava al suo studio di registrazione nel 17° arrondissement di Parigi. Per la polizia quest’uomo non poteva trovarsi in un arrondissement borghese. Anche quella volta gli agenti mentirono. Se non ci fosse stato un video non avremmo saputo nulla. Lui intanto sarà segnato per sempre da quell’episodio. Parigi è una città in cui neri e arabi non hanno libertà di movimento. Non è una legge scritta, ma loro sanno di non poter entrare in certi quartieri se non come fattorini, guardie di sicurezza o per altri lavori umili. Razza, classe e genere attraversano la città. Gli uomini neri e arabi non solo sono sospettati a priori di delinquenza, ma vengono anche condannati a pene più severe, mentre quelli bianchi e borghesi se la cavano spesso con un’ammonizione. Stato e società francese si rifiutano ancora di capire come e in che misura secoli di schiavitù e dominio coloniale abbiano permeato leggi, pratiche, istituzioni, discorsi e mentalità. Aimé Césaire ha scritto che «l’Europa è indifendibile» perché ha devastato popoli e mondi in nome della sua civiltà. Questa Europa non ha ancora riconosciuto di essere stata fondata su saccheggio, estrattivismo e lavoro forzato. E di aver tratto da lì la sua ricchezza. La violenza della polizia dice ad alcuni uomini che le loro vite non contano. Ovviamente questo razzismo strutturale è rivolto anche alle donne nere e razzializzate, ma è importante non adottare il femminismo bianco borghese che vede la sua condizione come universale, riprendendo il discorso coloniale/razziale della missione civilizzatrice e accusando alcune società di essere, per natura, più oppressive nei confronti delle donne rispetto alle società occidentali. La sua ossessione per il velo e l’islam mostra fino a che punto l’islamofobia ne sia la bussola. Il femminismo decoloniale antirazzista, invece, rifiuta di associarsi a queste accuse ed è solidale con gli uomini neri e razzializzati che sono vittime del razzismo sistemico.

È possibile pensare a istituzioni che non siano al servizio delle discriminazioni razziste e che partano dal basso?

Non solo penso sia possibile, penso che dobbiamo lavorare in questa direzione. Dobbiamo fare uno sforzo costante per immaginare come dare vita a nuove istituzioni. Viviamo in uno stato di guerra permanente, violenza quotidiana contro cui è giusto ribellarsi. Questo stato di guerra permanente è visibile nella militarizzazione della sfera pubblica, nell’aumento dei bilanci militari e degli armamenti. Nell’ascesa dei partiti fascisti e di estrema destra. Nel potere dei multimiliardari di imporre le proprie leggi, mentre mancano scuole, ospedali, giardini, foreste, aria pulita e acqua potabile. Con migliaia di persone muoiono in fuga da dittature, povertà, guerre e violenza. Lo Stato pretende di proteggerci aumentando poteri di polizia e leggi repressive, ma così non fa che ampliare la violenza.

Crede che l’assassinio del giovane Nahel M. possa essere una prova di come l’etero-patriarcato agisce sulle mascolinità razzializzate? Può parlarci della loro vulnerabilità?

Questo etero-patriarcato, fondato sulla bianchezza, si è basato sul principio della proprietà privata, che gli ha permesso di possedere esseri umani (schiavitù), e su leggi di successione che hanno consolidato le corporazioni familiari e l’eredità maschile. Ha contribuito alla creazione di istituzioni che hanno rafforzato il suo potere: università, ricerca, musei, tribunali, polizia e naturalmente l’esercito, che celebra valori machisti. Essere uomo significava poter uccidere per piacere e rafforzare il proprio dominio. L’uomo associava la sua esistenza a un ordine sociale e culturale che gli garantiva il potere. L’etero-patriarcato è uno dei fondamenti dello Stato e, nel caso dello Stato coloniale/razziale, le mascolinità razzializzate sono costruite in quanto inferiori. Non dimentichiamo che durante la schiavitù coloniale la paternità non era riconosciuta agli schiavi, ai quali era vietato avere una famiglia. Le leggi coloniali criminalizzavano l’omosessualità, creando una sorta di patologia della famiglia non bianca che non era mai abbastanza o lo era troppo – il che giustificava il controllo statale su queste famiglie. Nulla di tutto questo è passato. In questo momento, a Mayotte, una (post)colonia francese nell’Oceano indiano, il governo francese sta attuando un’espulsione armata di massa di “clandestini” e la distruzione di centinaia di capanne in nome dell’igiene e della salubrità, la creazione di un parco naturale e l’annuncio di un programma di sterilizzazione di donne nere e musulmane. Tutto si combina: protezione della “natura” contro la popolazione, pulizia etnica e sterilizzazione. Lo Stato etero-patriarcale rende vulnerabili le mascolinità razzializzate in diversi modi: negando loro il proprio posto nella società, mettendole quotidianamente di fronte alla minaccia di morte, di controllo, di imprigionamento, di rifiuto del lavoro e di una casa. È una campagna quotidiana di umiliazione, una negazione del rispetto e dei diritti, una dimostrazione del dominio maschile bianco.