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François Boyer, scomposizioni del lutto nella cesta dei balocchi

François Boyer, scomposizioni del lutto nella cesta dei balocchiAndré Masson, «Bambino spaventato dalle ombre della guerra», 1943

Scrittori francesi Nel 1947 François Boyer sovvertì i canoni della tradizionale «littérature de guerre» raccontando i rabbiosi «Giochi proibiti» di due bambini, vendetta innocente contro i codici dei grandi: da Adelphi

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 17 luglio 2022

In una pièce di François Boyer «Dio abbaia?» e in una sua sceneggiatura, «Preti proibiti», sono sintetizzate due forme del sacro: una primitiva e animale, una civile e morale, talvolta non meno feroce. Intorno ad esse ruota Giochi proibiti (traduzione di Maurizio Ferrara, Adelphi, pp. 130, € 16,00), titolo che riassume emblematicamente questa doppia visione. Da un lato, un mondo innocente che, mimando ludicamente il sacro, ne ignora la profanazione; dall’altro la punizione in nome della legge impenetrabile del Padre, sia esso Dio o chi ne fa le veci.

La focalizzazione dell’autore sposa lo sguardo sbigottito ma curioso di due bambini: Paulette, nata nella civilissima Parigi, non è stata meno umiliata, nei suoi brevi trascorsi, di Michel, figlio di rudi contadini. Presso la loro fetida stalla è accolta la bambina dopo aver perso il cane e i genitori sotto le bombe.

Sembianti del lupo
Tra i due fanciulli figli della morte o della mortificazione nasce un sodalizio: carità per gli animali loro consimili e vendetta contro il mondo adulto. Questo, «coi suoi grandi gesti», appare loro sotto i sembianti del lupo: sia che calzi l’elmetto, e dal cielo sganci bombe alla cieca, sia che incalzi, con scarpe chiodate, contro i loro corpi inermi; sia che chieda, per bocca del bifolco padre di Michel, di recitare il Pater Noster mentre li priva del pane quotidiano da lui e i suoi consumato con animalesca foga («facevano un sacco di rumore con i cucchiai, i coltelli, i piatti, le labbra, le lingue e le gole»).

Il futuro sceneggiatore della Guerra dei bottoni (dove, tra l’altro, compare nel ruolo di prete) propone con Giochi proibiti una duplice battaglia tra mondi paralleli eppure inconciliabili: alle rumorose zuffe intestine tra le due famiglie del villaggio, i Dollé e i Ganard, si alternano le subdole monellerie dei piccoli contro i grandi, o meglio: contro il grande codice che loro interpretano. Esito di un cortocircuito intermediale (fallita la sceneggiatura di Giochi sconosciuti, 1947, la storia diventa romanzo e, a seguito del successo al cinema, il romanzo è riedito col titolo filmico di Giochi proibiti), l’opera conserva una certa impronta cinematografica.

Sin dall’incipit, il tempo narrativo cede repentinamente il posto al presente scenico a restituire, nel suo ritmico avanzare, la teoria di sfollati a seguito dei bombardamenti nazisti («La colonna si rimise in marcia a fatica, simile a un lungo lombrico. La testa avanza, la coda si ferma, la coda avanza, la testa si ferma»). Quando cessa il mortifero frastuono dell’infinitamente grande, l’infinitamente piccolo risolleva la testa. Nel silenzio e nel vuoto lasciati dall’aviazione tedesca che si ritira come Dio dai cieli brulica infatti, in un profondo entroterra, un infra-mondo ancestrale, animale, e brutalmente patriarcale. Un entroterra sciancato e acciaccato, scampato al macello: brusii, mormorii, ronzii d’insetti e di organi vitali, scalpiccii di zoccoli e di scarponi, mestar di minestre.

In questo fermento risuona il martello di Michel, sottratto al padre: lavora in segreto per compaginare piccole croci. Con Paulette vuole edificare un cimitero per gli animali morti, sorta di contro-monumento a una memoria minore. La loro salmodia, balbettata in una lingua fantasiosa e financo scatologica, accompagna questo rito di edificazione, dove il sacro e il sacrificio di Cristo, sconosciuti al loro mondo, sono incarnati, interpretati dall’ignara liturgia dei loro corpi infantili. A seguito della punizione del padre per atto di lesa maestà, Paulette e Michel si metteranno a rubarli, i crocifissi. Croci dalle forme e dalle materie più svariate scompaiono dai luoghi religiosi del villaggio: dalla chiesa, al cimitero. Fino al carro funebre, che si vedrà privato della sacra insegna dopo aver servito il funerale del fratello di Michel, colpito alla testa dal calcio di un mulo e morto, anche lui, come un animale.

La collezione delle croci rubate, che il ricorso all’enumerazione sciorina sotto gli occhi del lettore – «c’era un autentico cimitero in miniatura adorno di una trentina di croci. Croci di legno, croci di ferro, d’argento, di bronzo, d’oro, di ogni dimensione»– è, ancora, un peccato veniale. Ma il coronamento dell’opera, la grande croce della cappella, «alta come un uomo, che sovrastava tutto», è peccato mortale.

Una profanazione
Michel, eroe per quello che chiameremmo, dall’altro versante del mondo, l’amore di Paulette, nel profanare per lei il simbolo del Padre vi lascia il suo corpo lì sotto riverso; lei, dopo averlo incoronato di fiori, segue il suo fiuto, e va. Il desiderio maturato insieme, un giorno, di veder scomposto da un’esplosione il corpo del padre per ricomporlo a piacere è forse il solo modo, nell’universo del fanciullo, di appropriarsi del mondo quando questo è lasciato vuoto da una vera, mortale, esplosione. A loro non sarà forse mai dato guidare il carro funebre. Ma che nessuno abbia l’illusione, come il signor Muriel, che chi guida il carro sia fuori dal gioco della morte.

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