Fra le tradizioni di ricerca degli studi culturali, si è imposta in Italia, negli anni Settanta, una corrente storiografica che, focalizzandosi sul valore dell’agire quotidiano, stretto in un luogo ben preciso, ha proposto la  microstoria come correttivo delle «grandi narrazioni» storiche ufficiali.  Considerando le persone comuni come agenti potenziali dei grandi mutamenti storico-sociali, la microstoria indaga sul ruolo della quotidianità nella Storia, rileggendo il passato alla luce della vita di ogni giorno, di quegli eventi «normalmente eccezionali», che possono offrire nuove e inattese interpretazioni. Su un’analoga aspirazione a catturare il valore, il dramma e l’energia delle vite che passano inosservate, si basa il nuovo romanzo dello scrittore inglese Francis Spufford, La luce che non si spegne (traduzione Mariagiulia Castagnone, Bollati Boringhieri, pp. 364, € 20,00), una resa finzionale della teoria microstorica spinta alle estreme conseguenze. Non solo Spufford rilegge sei decenni di vita inglese attraverso la vita minima di cinque personaggi piuttosto ordinari, appartenenti a quella working class (o lower middle class) di cui la Storia ufficiale britannica raramente si occupa, ma presta la sua fantasia di romanziere a scegliere come protagonisti cinque dei quindici  bambini morti nel bombardamento di un grande magazzino a Londra nel novembre del 1944.

Dopo un incipit degno della più coinvolgente fantascienza speculativa, dove per descrivere la tragica esplosione Spufford rallenta il tempo narrativo fino a dilatare su cinque pagine il trascorrere di un millesimo di secondo, resuscita a una vita fittizia due bambine e tre bambini vittime della V-2 che colpì i magazzini Woolworths di New Cross Road.  Immaginando il futuro che è stato loro negato e raccontando le infinite possibilità che si nascondono nelle vite comuni, Spufford misura la perdita di un’esistenza, mentre sottolinea come nessuna vita si debba dare per scontata. Il procedimento narrativo parte, dunque, da quel «cosa succederebbe se», che Gianni Rodari riconosceva come l’ipotesi fantastica per antonomasia, all’interno della quale «tutto diventa logico e umano»: tuttavia, in «un quadro incorniciato dalla morte» – come Spufford ha definito il suo romanzo – l’ipotesi fantastica enfatizza il senso di precarietà della vita umana, ricordando a chi legge come le storie raccontate non siano che futili sfide alla morte, vite fittizie attribuite a persone defunte.

Le gemelle Jo e Val, così come il fragile Ben, il brillante Alec e Vernon il bullo, sono seguiti dal 1949 al 2019, attraverso il racconto di un giorno nella loro vita, a quindici anni di distanza l’uno dall’altro, dalla scuola elementare alla casa di riposo. Se l’ossatura del romanzo può ricordare tanto quella di un classico come Gli anni di Virginia Woolf quanto la scansione cronologica di un best seller più recente come Un giorno di David Nicholls, l’empatia con cui Spufford guarda i suoi personaggi e si interessa alle loro normalissime vicende, lasciando intuire quanto la storia sociale incida sulle singole esistenze, senza tuttavia permettere che essa prenda il sopravvento sulle loro microstorie, rimanda piuttosto a all’attenzione che Jonathan Franzen riserva alle dinamiche familiari, o al Jonathan Lee di Il tuffo, dove la grande Storia e le piccole vicende individuali sono ugualmente «incorniciate» da un’esplosione letale.

Romanzo polifonico piuttosto che corale, La luce che non si spegne mostra i protagonisti tutti insieme solo in un episodio del 1949, durante una lezione di canto nella scuola primaria, quando già lasciano intravedere segni del loro futuro: Jo, che è dotata per la musica, cercherà negli anni Settanta in California un successo reso impossibile dal sessismo del mondo del rock, e tornerà dunque in Inghilterra a insegnare canto; sua sorella Val, attratta dall’universo maschile fin dall’infanzia, finirà per legarsi a un violento skinhead neonazista; Alec, intelligente e creativo, amante delle parole e fin da bambino animato da un forte senso di giustizia, sarà tipografo e sindacalista, sconfitto e costretto a reinventarsi dall’avvento del digitale e dalla perdita di potere delle Trade Unions; Vernon, bulletto grassoccio e viziato a nove anni, da grande sarà un palazzinaro sempre in bilico tra bancarotta e arricchimento illegale. Quanto a Ben, è il personaggio verso il quale chi legge prova maggiore empatia: molto più piccolo e timido dei suoi coetanei ai tempi della scuola, intorno ai vent’anni finisce in un istituto psichiatrico, dove gli viene diagnosticata una forma di schizofrenia, trattata con metodi più deleteri del suo male. A lui Spufford dedica le sue pagine più intense: lo segue, in una giornata del 1979, quando uscito dal manicomio, lavora come controllore su un autobus di linea londinese, e attraverso un abile uso del discorso indiretto libero, riesce a condurre chi legge non solo nei meandri e tra le ossessioni di una mente malata, ma anche attraverso i diversi quartieri di una Londra osservata nei minimi dettagli, con l’occhio di un moderno Dickens.

In effetti, La luce che non si spegne è un anche grande romanzo londinese: mentre le strade dei protagonisti divergono e ognuno di loro viene osservato dallo scrittore, ogni quindici anni,  lasciando così a chi legge il compito di immaginare quanto è accaduto nel tempo trascorso, Londra resta il costante scenario delle loro vicende, rendendo l’intero romanzo anche una storia sociale della capitale britannica. Le microstorie immaginate per le piccole vittime del bombardamento del 1944 si svolgono in una metropoli in cui il passaggio del tempo non è segnato soltanto dalla gentrificazione o dalla trasformazione di zone un tempo esclusivamente bianche in quartieri multiculturali: dettagli quasi impercettibili nel panorama urbano suggeriscono, per esempio, la fine dell’industria pesante o l’ascesa della destra, senza che mai si leggano nomi di politici o si faccia allusione ad avvenimenti storici precisi. «La gente non pensa, ‘Sto vivendo la storia’, pensa piuttosto: ‘oggi è mercoledì’», ha detto Spufford per giustificare la sua scelta di concentrarsi sulle emozioni e i fatti più banali. L’esplosione della bomba ha sottratto Jo, Val, Ben, Alec e Vernon ai miracoli ordinari del quotidiano, che segnano la nostra esistenza senza che quasi ce ne accorgiamo: «una cosa alla volta; un brandello di felicità che si incastra in un altro; una giornata che racconta la propria storia al giorno successivo».