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Francia, il sound della crisi

Francia, il sound della crisiRenaud e la sua band

Musica Un viaggio tra gli artisti che hanno accompagnato le ricorrenti convulsioni della République. Dalla rivoluzione del 1789 all'odierna pandemia

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 21 novembre 2020

«Abbiamo potuto fare il nostro concerto, ma senza pubblico, senza pubblico, senza pubblico,, tentando di mandare avanti la baracca con le nostre canzoncine, dicendo dei ‘come va?’ patetici in una sala vuota senza acustica!»: un filmato in rete continua a ottenere, dal marzo scorso, molte visualizzazioni, soprattutto nei paesi francofoni; si tratta della nuova versione del brano Les amoureux des bancs publics (1954) di George Brassens coverizzata per la tv Svizzera dalla band del programma 120 Minutes, il cui testo diventa Sans public ovvero una parodia dell’originale, trasformandosi in una canzone sulla tristezza del lockdown. Perché Brassens? Perché, ancor oggi, simboleggia, nell’immaginario popolare, l’idea di Francia, di Parigi, dunque una nazione, una città, un popolo, che, da fine Settecento a oggi, almeno sei-sette volte stravolge il corso della Storia, non senza il contributo più o meno diretto degli artisti, musiciens inclus.

La prima moderna rivoluzione (1789), i moti repubblicani (1848), la Comune (1870), Paris libéré (1944), la contestazione generale (1968) e di recente persino casseurs e gilets jaunes sono fenomeni politico-sociali, ai quali si affiancano culture ed estetiche ad anticiparne o prevederne le mosse o gli obiettivi, talvolta con ottimistico entusiasmo, talaltra sottolineandone al contempo miserie, difficoltà, tragedie quotidiane e collettive: di riflesso un quadro, una poesia, un fumetto, una canzone, metaforizzano le cangianti stagioni di rivolte, guerre, ribellioni, battaglie, con un ostacolo o un mostro da sconfiggere, respingere, distruggere.

Ora che il Covid-19 risulta il nemico invisibile, Parigi e la Francia lottano anche contro inquietudini, malesseri, depressioni, che però, storicamente, sono già una costante e una scommessa nel mondo di una nuova creatività che dal dopoguerra offre l’esistenzialismo, l’art brut, il teatro dell’assurdo, la musique concrète quali ‘ésprit du temps’ oggi interpretabili come specchi deformanti di una pandemia nichilista all’epoca solo mentale (o dai contagi ideologici).

E la musica riflette uno stato d’animo in emergenza, anche di fronte a problemi diversi o simili al coronavirus. Sui palcoscenici di modesti teatrini e poi tra i fasti dell’Olympia, personaggi come Édit Piaf, Yves Montand, Juliette Gréco, si presentano vestiti di nero dalla testa ai piedi, a cantare da soli, con le orchestre nascoste nel golfo mistico e con scenografie ridotte a scuri tendaggi, offrendo melodie struggenti e testi che, sì, inneggiano alla vita, rappresentando però anche i lati oscuri come avviene per esempio in Je ne regrette rien, Milord, Les feuilles mortes, Sous le ciel de Paris, eccetera.

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta tocca agli auters-compositeurs – equivalenti dei nostrani cantautori – a incarnare una sorta di esistenzialismo personale e personalizzato dove il risvolto autobiografico assume spesso valenza universale pensando, ad esempio ai testi di Jacques Brel, Leo Ferré, Jean Ferrat, Gilbert Bécaud, Charles Aznavour e appunto il corrosivo Brassens. Per altre musiche, più o meno coeve, sono le proprietà intrinseche al suono medesimo a dover, voler, poter affrontare la ‘malattia’, che fino al gennaio 2020 resta politica forse infetta, ma non infettiva: ecco quindi che il Sessantotto coincide con un free jazz estremo, furioso, addirittura cacofonico, nel contatto diretto con i jazzisti afroamericani esuli: l’etichetta discografica Actuel, in tal senso, per alcuni mesi, raccoglie lo scontento dei vari Archie Shepp, Art Ensemble Of Chicago, Anthony Braxton, Don Cherry, Clifford Thornton, accanto agli iconoclasti Claude Decloo, Acting Trio, Ame Son, Pierre Mariétan.

Dagli anni Settanta Parigi e la Francia perdono, a livello musicale, quel carattere autoctono che, in fondo, rendono cosmopolite – e soprattutto apprezzate internazionalmente – le esperienze degli chansonniers che, di punto in bianco, si trovano senza eredi o continuatori, bensì sopraffatti da giovani generazioni sempre più inclini a un mainstream di osmosi angloamericana: assorbire i suoni del rock, del pop, del soul, del blues, dello swing – per foraggiare un trend canzonettistico, sia pur in lingua francese (grazie a interventi statali per così dire protezionistici) – non fa altro che accrescere la propria autoreferenzialità un po’ nazionalistica, fin quasi a scomparire dalle scene mondiali. Sono rare le eccezioni e riguardano soprattutto i jazzisti, la world music di minoranze etniche (raï maghrebino, afrobeat subsahariano, tango argentino, dal 2000 spesso riplasmati in hip hop protestatario) e il caso di una band, Noir Désir, in grado di esternare il disagio contemporaneo, salvo poi autoannullarsi per l’atroce delitto compiuto dal leader Bertrand Cantat che, in un momento di rabbia, massacra l’attrice Marie Trintignant.

Ma sono dunque les jazzistes a rappresentare, agli occhi del Pianeta, Parigi e la Francia con un suono oscillante tra passato e futuro, consapevoli di rapportarsi a un sistema ormai in crisi, come emerge dal libro France, jazz masculin féminin (EduCatt, Università Cattolica) raccolta di 42 interviste in lingua originale, molte delle quali effettuate tra l’estate 2019 e la primavera 2020: leggendo le risposte sulla situazione della musica da parte dei vari Michel Benita, Marc Buronfosse, Médéric Collignon, François Corneloup, Laurent de Wilde, Stéphane Guillaume, eccetera, si avverte una sofferenza morale che il Covid-19 non fa che amplificare ulteriormente.

Ma ci sono modi e modi di reagire alla pandemia con la musica: due ‘modi’ rispecchiano gli estremi della creatività francese-parigina, l’istinto e lo studio: da un lato, infatti, quasi d’emblée, il settanduenne Renaud l’8 luglio pubblica in rete un rock-blues, Corona Song, in cui esprime la rabbia in termini di protest song dai toni quasi bukowskiani: «Ma quel che è peggio è che per colpa di quel bastardo mi chiudono tutti i bistrot, non posso più bere un bicchiere di vino coi miei compagni della disperazione. Stronzo di un virus»; dall’altro, con i necessari approfondimenti, Esteban Buch (esperto di rapporti tra musica e politica in una prospettiva storica e musicologica) e Hyacinthe Ravet (specialista nelle relazioni fra i generi musicali) offrono una disamina esemplare circa l’impatto del virus sul panorama musicale nell’intervista La musique pendant le Covid-19: le regard de deux chercheurs, pubblicata il 20 giugno sul web magazine La lettre du musicien: leggerlo a distanza di sei mesi, resta purtroppo di scottante attualità, soprattutto nelle parole finali: «Durante la crisi, i video dei musicisti classici ci hanno ricordato la dimensione sociale, storica e politica della creazione musicale. Ciò ha permesso di mettere la dimensione umana, sociale ed economica alla pari con la dimensione simbolica».

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