C’è qualcosa di sorprendente nel modo in cui a ogni nuovo capitolo della storia del Cile Patricio Guzmán ne riesce a mettere a fuoco il presente a partire da quel trauma che ha segnato il Paese e il suo vissuto, e che è divenuto il centro intorno al quale lavora la sua poetica di cineasta: il golpe dei militari, l’assassinio di Allende, gli anni della dittatura. Da queste sequenze d’archivio con Allende che cammina in mezzo al «suo» popolo inizia anche Mi país imaginario, presentato a Cannes in Séances spéciales – la sezione dedicata ai documentari che sulla Croisette, nella selezione ufficiale almeno non sono ancora ritenuti «film» ma appunto «documentari» e quindi messi nella «riserva». Per fare un esempio Fuocoammare di Gianfranco Rosi, Orso d’oro alla Berlinale nel 2016, qui mai potrebbe competere per la Palma.

QUALE È DUNQUE questo Cile immaginario – o immaginato – a cui fa riferimento il titolo del film, dove Guzmán si avventura cercando tra le sue amate pietre della Cordigliera i segni con cui comprendere quanto sta accadendo? «Per documentare un incendio devi partire dalla prima fiamma» gli aveva detto Chris Marker quando era un giovane militante e filmava la rivoluzione. Oggi nel «paese immaginario» arriva che quell’incendio è già iniziato. Siamo nel 2019, il movimento di protesta che porterà a una nuova assemblea costituente per cambiare la costituzione e all’elezione, nel 2021, di Gabriel Boric, un candidato di sinistra alla presidenza, occupa le strade e le piazze di Santiago: come filmare, cosa cercare, chi incontrare per comprendere una protesta che ha origini lontane, in almeno trent’anni di costruzione di una realtà post-dittatura sempre più sbilanciata verso il neoliberismo, nascosta dietro una facciata di modernità e benessere messa lì a mascherare il vuoto, e una miseria crescente della maggior parte dei cileni.

La politica è lontana, di loro non ci crede più nessuno, e i politici – partiti, nomi dei loro rappresentanti ancora di più. Nelle strade gli scontri vanno avanti, la repressione pure, e sempre più feroce

E CHE SOPRATTUTTO non ha mai messo in atto una cesura con quel passato, a cominciare dalla costituzione rimasta uguale da allora. Sono le giovani generazioni che hanno iniziato la protesta, come la ragazza col volto coperto, tranne gli occhi verdissimi, e la maschera antigas. Intorno alla protezione ha dei fiori, «mi rappresentano» dice – e sbocciano come questa lotta. Fa parte di quei gruppi in prima linea nelle manifestazioni – «ma tutti sono importanti, anche le famiglie dietro» dice – la polizia cilena è violentissima, spara per colpire e fare male. Lei sa che potrebbe essere arrestata, che potrebbe non tornare a casa, che potrebbe morire. Ha un figlio piccolo ma non si tira indietro: perché quella lotta è per lui, per il futuro, per chi come lei a volte non ha da mangiare se si deve pagare le tasse universitarie e il resto.

LA POLITICA è lontana, di loro non ci crede più nessuno, e i politici – partiti, nomi dei loro rappresentanti ancora di più. Nelle strade gli scontri vanno avanti, la repressione pure, e sempre più feroce: quella polizia, i militari sono un corpo a parte rispetto ai cittadini, un corpo ostile: è anche questa l’eredità mai gettata via della dittatura? Guzmán raccoglie molte voci, altri militanti, una giornalista, una politologa, una scrittrice, una giovane fotografa colpita a un occhio dai militari – «era lo strumento del mio lavoro», le ragazze che hanno inventato una canzone contro il patriarcato che ora appartiene al movimento intero. Nelle rivendicazioni alla richiesta della nuova costituzione, di un sistema sociale più equo contro la privatizzazione, di intervenire sulle pensioni, la sanità, l’educazione, si uniscono le rivendicazioni femministe di eguaglianza salariale, contro la violenza, contro le discriminazioni. Rispetto a altri film Guzmán si mette un po’ da parte lasciando spazio a queste voci di un sogno che – come dice aspettava dal 1973.
E che occupa lo spazio di tutto il paese quando il presidente schiera l’esercito contro la protesta, lasciando risuonare ancora una volta gli echi orrendi di Pinochet: per un cileno è inaccettabile, oltre un milione di persone «occuperà» il paese. Nella sua narrazione piana, costruita cercando voci e momenti dei più diversi, che insieme fanno la trama di questa storia, e dicono di un nuovo sentimento «politico» nel quale la politica «istituzionale» così come oggi è intesa non ha più alcun ruolo, Guzmán riesce a restituire il sentimento del Cile e insieme un frammento di quello che è il nostro tempo. Con lucidità e passione in un’idea di cinema che mai ripete se stessa.