«Saluti da Aleje Jerozolimskie» è il titolo dell’opera che inventa un paesaggio nuovo nel bel mezzo di una trafficatissima rotatoria di Varsavia: quella palma mediterranea e artificiale, alta 15 metri, che svetta da ormai vent’anni ricordando Gerusalemme, secondo il progetto dell’artista Joanna Rajkowska, doveva essere solo la prima di un filare che rovesciava la realtà in un incantesimo visivo. Ma poi è rimasta unica. Da una manciata di giorni, però, la città polacca ha accolto un’altra scultura «vivente» di Rajkowska: un gigantesco uovo azzurro elettrico dal quale scaturiscono i suoni di chi cova e di chi nasce, una specie di rito propiziatorio per una nuova storia tutta da scrivere, a Srodmiescie, in pieno centro.

A Varsavia, il 2023 segna un tempo «doppio» e obliquo che vede intrecciarsi gli eventi radicata nel passato (ma che perdurano) e il presente della società contemporanea: una fusione che si manifesta spesso in quella metropoli ricostruita su stratificazioni di memoria e speranza: si ricordano gli ottant’anni dalla rivolta nel ghetto con mostre che ne ripercorrono le tappe drammatiche, ma si rintracciano anche le «biografie resistenti» fra le donne combattenti (in un anno politicamente difficile in Polonia, costellato di restrizioni dei diritti e di controllo del corpo femminile).

Zuzanna Hertzberg (foto Hanna Dzielinska)

Così, c’è tutta una Varsavia che si rianima, a partire dagli archivi – luoghi del desiderio e non solo della ricerca documentale – restituendo momenti perduti e reti di connessione che lanciano i loro fili nel futuro. La trama dei rimandi è fitta e «cuce» insieme topografie ribelli, attraversando i confini cronologici. Sono proprio questi gli «archivi affettivi» presentati dall’artista e «artivista» Zuzanna Hertzberg alla Galleria studio, spazio che si snoda all’interno del Palazzo della Scienza, l’enorme e snello grattacielo sovietico del 1955 (che sorge di fronte alla stazione, edificio iconico della città), salvato dall’abbattimento e oggi prismatico centro culturale.

Museo Polin, foto di Maciek Jazwiecki

Partendo dalla Mechitza, che divideva rigidamente gli uomini dalle donne nelle celebrazioni liturgiche, Zuzanna Hertzberg la trasforma in una serie di pannelli narranti, sui quali scorre la vita e l’«epica femminile» ebraica. Rovesciando il loro destino marginale e votato all’oblio, pone le donne al centro degli accadimenti, senza più separazioni e racconta – dando un volto e un’anima alla folta folla di figure – un’individuale e collettiva resistenza che si è andata articolando tra le pieghe della Shoah. «La Mechitza – dice l’artista – è per me una superficie che crea un ordito, un motivo attrattore di diverse storie legate al disconoscimento della memoria e, simbolicamente, evoca una negazione». Tra le tante fighters che riaffiorano – alcune morte nei campi, altre sopravvissute e che hanno continuato la loro missione nella politica – c’è anche Cywia Lubetkin. Antifascista, scrittrice polacca, fra le leader del ghetto di Varsavia, fu l’unica donna in posizione di comando del gruppo Zydowska Organizacja Bojowa. Uscì dal ghetto attraverso la rete fognaria quando ormai la distruzione totale era vicina e, in seguito, partecipò alla rivolta di Varsavia contro l’occupazione tedesca. Hertzberg ha poi proseguito, al secondo piano della galleria con un altro tassello della sua «cartografia sentimentale», sbarcando questa volta in Spagna (la guerra civile del 1936-39) e riconsegnando parole e fati alle donne che lottarono per la Repubblica. Molte, infatti, furono le attiviste ebree appartenenti ai gruppi di volontari che cercarono di sconfiggere Franco. Un altro «omaggio» è dedicato all’ucraina Olga Taratuta, anarco-comunista che militò in un sindacato di lavoratori a Odessa. Più volte arrestata, esiliata, fu l’animatrice della Croce nera di supporto agli anarchici imprigionati, ma l’ultimo arresto del ’37 le fu fatale: venne condannata a morte.

Al museo Polin (che ospitò la prima tappa di questa impegnativa ricerca, presentata anche alla Biennale di Berlino del 2022), nel cuore del quartiere Muranów (così denominato dall’architetto muranese che vi si installò nel XVII secolo) scorre (sotterranea) un’altra narrazione potente: è la mostra Intorno a noi un mare di fuoco (visitabile fino all’8 gennaio 2024). Barbara Engelking, autrice del concept espositivo, e Zuzanna Schnepf-Kolacz, curatrice della rassegna, hanno riportato – in uno spazio labirintico che «mima» i corridoi dei bunker dove si rifugiarono i circa 50mila civili del ghetto nel tentativo di sopravvivere – pagine dei loro diari, testimonianze, pensieri smarriti che ritornano. Si cammina in punta di piedi, col respiro spezzato, avvolti dal crepitio delle fiamme e accompagnati da quel sussurro di disperazione dei protagonisti, con l’interferenza visiva di alcuni oggetti riemersi dagli scavi recenti accanto al museo e da un corpus eccezionale di fotografie, appena restituite allo sguardo della Storia. Si tratta degli scatti clandestini del pompiere polacco (non ebreo) Leszek Grzywaczewski, allora 23enne, spedito dai nazisti a controllare che gli incendi appiccati per soffocare gli insorti (il 19 aprile del 1943) non lambissero i settori tedeschi. Trovate dal figlio in soffitta, quelle immagini (21 in un rullino) sono l’unica testimonianza «non allineata» che rivela, fuori da ogni propaganda e manipolazione, ciò che accadde: fino a oggi esistevano solo quelle ufficiali del «rapporto Stroop», destinate al capo delle Ss Himmler. La «colonna sonora» di questa immersione sensoriale ed emotiva nel passato è stata composta da Pawel Mykietyn, in ricordo del piccolo pianista Josima Feldshuh, morto a 11 anni di polmonite in un rifugio segreto della parte «ariana», nei primi giorni della rivolta.

Katarzyna Kozyra, «Sleep»

Ma gli archivi sono tesori parlanti anche del nostro presente, in grado di spostare l’ago della bilancia delle affabulazioni mainstream e di produrre connessioni inedite. È così che l’artista e performer di Varsavia Katarzyna Kozyra (1963) ha immaginato, con la sua fondazione e le sue collaboratrici il Secundary Archive, una piattaforma nata per raccogliere i dati di molte «colleghe», di tre generazioni, che operano all’est e nei paesi baltici (geograficamente, si va dall’Albania all’Ucraina).

Autrice sempre spiazzante (la più celebre installazione è l’Olympia di Monet reinterpretata con il suo corpo nudo e le cicatrici della malattia), Kozyra, che ha da poco portato a compimento la performance Sen / Sleep – nel giorno del suo compleanno ha chiesto di essere ipnotizzata, dormendo mentre intorno a lei si svolgeva il party «in sua assenza» – lavora da due anni a questo archivio online. Presentato per la prima volta a Manifesta 14 di Pristina, raccoglie dichiarazioni di artiste, biografie, opere fornendo un ricco «catalogo» prima sommerso.

Con quel nome ironico, che allude al piano di sfondo riservato storicamente alle donne, è un enciclopedico mondo digitale che raddrizza le storture della rappresentazione di genere, fornendo conoscenza, una genealogia del pensiero femminista all’interno dell’Europa orientale e un dispositivo che attiva comunità per affinità elettive.

All’arte d’avanguardia femminile è anche dedicato il progetto della Arton Foundation: è il Forgotten Heritage, database che ha preso vita nel 2018, ideato nella sua forma di network dal collettivo Plural. Sono storie non scritte, che escono dall’invisibilità per farsi spazio. Con le loro pagine «da sfogliare», magnifico argine alle facili dimenticanze, interrogano insieme presente, passato e futuro.