Flussi sonori dal mondo di scena al Primavera Sound
Note sparse Dopo lo stop di due edizioni per la pandemia, torna il festival portoghese «gemello» di quello catalano. Cast multiforme: da Beck e i Gorillaz a Nick Cave, Little Simz, Black Midi
Note sparse Dopo lo stop di due edizioni per la pandemia, torna il festival portoghese «gemello» di quello catalano. Cast multiforme: da Beck e i Gorillaz a Nick Cave, Little Simz, Black Midi
«Sono un perdente, un perdente tesoro, allora perché non mi uccidi?»: non è tanto credibile Beck quando canta questo indimenticabile ritornello al Nos Primavera Sound di Oporto. Ha davanti almeno cinquantamila persone, la sua musica viene pompata da un impianto potentissimo, sullo schermo alle sue spalle scorrono immagini che ricordano i lavori di Damien Hirst in un flusso travolgente, al suo fianco ci sono due musicisti ma lo zoom è sempre puntato su di lui che zampetta sul palco senza sosta…Del resto quel pezzo, Loser (da Mellow Gold) ha quasi trent’anni, nel frattempo sono successe tante cose e Beck Hansen è uscito da tempo dall’Indie-rock e dal lo-fi per provare ripetutamente a diventare una star mainstream. Il live di Oporto è la prova che ce l’ha finalmente fatta e che, anche se nel suo set ora ci sono un po’ troppe basi e un po’ troppo playback, nel mainstream questo artista losangeleno può comunque mettere un tocco disturbante, qualche suono eversivo, melodie non scontate. Magari alternando, come ha fatto a Oporto, una Everybody’s Got to Learn Sometime per chitarra e voce alle sonorità aggressive di E-pro, con il suo ritornello volutamente monotono – «na-na-na-na-na» – in mezzo a un mare di fuzz guitar e distorsioni, oppure sfoderando la cantilena acustica di un’armonica a bocca e poi il riff hip hop di Loser…Quello di Beck era il concerto più atteso della seconda serata di questo festival arrivato alla nona edizione (il primo dopo due anni di pausa pandemica). Si tratta, come suggerisce l’insegna, della suntuosa succursale del più celebrato e stagionato Primavera Sound catalano. Un festival che si celebra ogni anno con una settimana di scarto rispetto a Barcellona e propone un cast quasi altrettanto ricco. Ha trovato casa da sempre nel Parque da Cidade, a pochi passi dal mare e dalla spiaggia di Matosinhos, meta privilegiata di locali e turisti in cerca di relax. Un luogo perfetto che sa di erba e salsedine e accompagna gli itinerari delle migliaia di astanti che si disimpegnano tra le proposte dei quattro palchi ufficiali. Perché venire a Oporto dunque se ci sono meno artisti e meno palchi? Beh intanto proprio per questo: la bulimia catalana costringe gli astanti a maratone insostenibili. Qui ci sono una ventina di set al giorno ma tutti praticamente incastrati, senza sovrapposizioni, c’è meno ressa e, ultimo ma non ultimo, c’è un fertile focus sulla scena portoghese che, edizione dopo edizione, ha puntualmente regalato sorprese. Quest’anno ad esempio la folktronica dei Montanhas Azuis, il groove contagioso di Holy Nothing, la trap di Pedro Mafama, il jazz rap di David Bruno, il fado elettronico di Rita Vian, la club culture di Nidia, Dj Firmeza, Mvria e soprattutto il travolgente electro-kuduru di Throes + The Shine, un trio che è una joint-venture tra Porto e Luanda, un flusso danzereccio e molto esportabile di poliritmie e flow.
C’ERANO anche due bassiste molto attese a Oporto, entrambe statunitensi. Una il basso non l’ha proprio imbracciato, ma si trattava della quasi settantenne Kim Gordon che ora gira con un gruppo di sole donne, il basso lo fa suonare alla giovane Camilla Charlesworth e continua comunque a dispensare pillole di saggezza rock, dominando la scena con la sua aura e la sua scrittura anticonvenzionale. L’altra è il talento emergente del bassismo statunitense, un tipo esigente come Flea la stima tantissimo e non si presenta mai senza un inconfondibile Precision bianco. Si chiama Laura Lee e suona nei Khruangbin, trio texano che anche in Portogallo ha portato la propria ricetta sonora inconfondibile: qualcuno l’ha chiamato funk sudista, ma forse sarebbe meglio definirlo dream-funk.
Qui ci sono una ventina di set al giorno ma tutti praticamente incastrati, senza sovrapposizioni, c’è meno ressa e, ultimo ma non ultimo, c’è un fertile focus sulla scena portoghese.
Sorvoliamo invece sui set di Sky Ferreira (piuttosto alterata a dire il vero), dell’australiana Stella Donnelly (che si fa notare solo per una cover di Love is in the air del connazionale John Paul Young), dei britannici Slowdive con il loro shoegaze omeopatico, dei pur stimabili Shellac (titolari di un teatrino potente, ma oramai trito e ritrito) e concentriamoci su altre tre o quattro cosette che ci hanno fatto sobbalzare davanti all’oceano. In primis King Krule e la sua band che macinano un alt rock pieno di influssi, trascinante e intelligente; poi Helado Negro (alias Roberto Carlos Lange) che ha dimostrato davanti a una platea completamente ipnotizzata dal suo pop setoso che si può fare musica estiva senza essere per nulla banali; quindi l’anglo-nigeriana Little Simz che si candida e vince il premio di rutilante promessa hip hop con un set memorabile, pieno di consciousness e ribalderia. Infine, ancora da Londra, i devastanti Black Midi: il loro math-rock che di tanto in tanto esonda nel jazz è un alambicco che ci ha regalato forse la pozione più moderna del festival.
A OPORTO, come a Barcellona, c’erano infine anche Tame Impala, Interpol, Arnaldo Antunes, Pavement, Jamila Woods, Dinosaur Jr., Nick Cave e i Gorillaz. Troppe cose e troppo importanti per liquidarle in poche righe. Diremo solo che le ultime due si sono rivelate esperienze concertistiche molto intense. Nick Cave, nonostante abbia preso una rincorsa di un paio d’anni per questo tour che veniva continuamente rimandato dal covid, ci è sembrato meno travolgente e impeccabile del solito. Sia chiaro, il concerto funziona, il gruppo gira a dovere, Nick cerca come sempre le mani delle prime file, ma la sua visione catartica del concerto paga un poco pegno a una frenesia scomposta. Non bastano i fremiti di Jubilee Street, di Tupelo, di Mercy Seat, di Red Right Hand (il più waitsiano dei pezzi del Re inchiostro con la sua campana e il suo andazzo che ricorda “Clap Hands”)…È come se la macchina si fosse ingolfata per troppo carburante nei cilindri, per troppa voglia di calcare i palchi o per troppo dolore. Perdere due figli in sette anni, non è una catarsi, è semplicemente una tragedia e neppure l’adrenalina di un main stage può riparare danni del genere. Quanto al gruppo guidato da Damon Albarn, la sensazione è che continui ad essere la sua incarnazione progettuale più confortevole, proprio perché la più anomala, sfuggente e insieme centrata, come gli ologrammi che la rappresentano. Lo era nel 2000 quando 2-D, Noodle, Murdoc Niccals e Russell Hobbs si sono intromessi nel primo EP (virtuale) dei Gorillaz, Tomorrow Comes Today. Abbiamo scoperto biografie affascinanti dietro ogni personaggio, una nuova mitologia per i fan della musica elettronica, testi eleganti e magnifico rock 2.0 venato di hip hop. Niente è troppo grande o troppo impegnativo per i Gorillaz. Anche se la loro storia è piena di alti e bassi e voci di rotture, il sorriso ribelle di 2-D resta galvanizzante. Instancabile come Clint Eastwood, per citare il loro tema più popolare, che alle tre di notte, davanti a una platea imponente, ha praticamente chiuso il festival.
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