Cultura

Fiume racconta il vero volto dell’«Impresa»

Fiume racconta il vero volto dell’«Impresa»Fiume distrutta dopo il bombardamento del Natale di sangue del 1920

Eventi Nel centenario dei fatti si apre nella città croata una mostra che rilegge la «spedizione» guidata da D’Annunzio. «Il fascismo iniziò da lì», spiega la curatrice, la storica Tea Perincic

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 8 settembre 2019

«Edulcorato, estetizzante. Indifferente alle sorti della popolazione di origine slava che durante l’occupazione capeggiata da D’Annunzio subì discriminazioni e venne, in buon numero, costretta all’esilio». La storica Tea Perincic non usa giri di parole per commentare l’approccio con cui in Italia si riscopre e si sdogana la presa di Fiume da parte del Vate e dei suoi arditi avvenuta esattamente un secolo fa.

Nel Palazzo del Governatore della città croata, ribattezzata Rijeka nel secondo dopoguerra, apre, giovedì 12 settembre, una piccola mostra che è il controcanto a quella in corso a Trieste, ideata da Giordano Bruno Guerri, direttore del Vittoriale e cultore del mito dannunziano.

«Legionari» di D’Annunzio a Fiume

Si tratta di uno dei pochi eventi organizzati lungo le coste del Golfo del Quarnaro per ricordare i cento anni di un’esperienza complessa e contraddittoria che qui è stata a lungo avvolta nell’oblio, oscurata dalla storiografia ufficiale e dalla memoria cittadina. In Italia, invece, l’«Impresa» affascina e viene spesso celebrata equiparando il Vate ad un «eroe rinascimentale» o ad un novello Garibaldi che, prendendo armi in pugno la città irredenta, seppe tenere alto il vessillo di un’italianità tradita dalle timidezze del governo Nitti e dai diktat della Triplice Intesa.

«Le riletture di questo tipo mi preoccupano – confessa Perincic che per questa mostra ha lavorato in tandem con la storica dell’arte Ana Maria Milcic raccogliendo fotografie, quadri, diari e alcuni cimeli dell’epoca – ma qui in Croazia nessuno sembra invece farci caso. I nostri politici guardano ad est piuttosto, preoccupati dalla situazione in Bosnia, quando in realtà ci sarebbero le condizioni per aprire una vera e propria crisi diplomatica. Questo ritorno di fiamma del nazionalismo in Italia, questa retorica agiografica sul passato per trovare appigli ideologici è inquietante. Tanto più che si travisa anche la Storia. Fiume non è mai stata una città italiana. Ma semmai un porto aperto abitato da una molteplicità di etnie. Per secoli ha goduto di uno status particolare all’interno dei confini dell’Impero Austro-Ungarico. D’annunzio ha negato il municipalismo che era sempre stato un tratto fondante della città. Ha spinto molte persone all’esilio. Insomma la sua avventura, finita poi nel sangue, ha aperto la strada al fascismo. Ne è stata la prova generale»

In Italia c’è chi pensa che questa sia una lettura rigida, senza sfumature, a sua volta ideologica. Tra D’Annunzio e il fascismo non ci sarebbe un legame diretto, si dice. Anzi, per qualcuno l’esperimento fiumano fu un 68 ante litteram. La realizzazione di un’utopia libertaria che prevedeva un’assoluta parità tra uomini e donne e il suffragio universale. Una festa dove si praticava l’amore libero e l’arte aveva un ruolo centrale.
È una visione romantica e tra l’altro poco precisa, si dice ad esempio che D’Annunzio avrebbe legalizzato il divorzio ma in realtà non è vero. Il divorzio venne legalizzato prima, quando Fiume era un corpus separatum della Corona ungherese. Per non parlare poi del suo autoritarismo. Organizzò un referendum sulla proposta d’accordo avanzata da Badoglio ma siccome il responso non gli piacque ordinò ai suoi uomini di distruggere le urne e dargli fuoco.

Perché avete scelto di intitolare la mostra «L’Olocausta di D’Annunzio»? Una definizione che, mi pare, fu proprio D’Annunzio ad usare riferendosi a Fiume.
Si. Olocausta per lui significava sacrificata, martire. Vittima della politica rinunciataria del governo italiano. Era una delle definizioni che aveva dato della città che considerava «italianissima» e che usò come teatro del suo sconfinato egocentrismo. Abbiamo ripreso questo termine attribuendogli un’altra connotazione. Fiume fu vittima sì, ma proprio di D’Annunzio. E vittime, «ostaggi» furono i suoi abitanti in particolare le donne che D’Annunzio amava sedurre per poi abbandonarle. Donne che ricercavano libertà e emancipazione e per questo alcune combatterono al suo fianco, ma che in realtà il Vate strumentalizzò. In fondo erano solo pedine di un disegno velleitario. Quando le cose si misero male D’Annunzio abbandonò la città bombardata tornandosene a casa.

Una caricatura dal giornale fiumano «La vedetta d’Italia» del 1919

Chi sono queste donne? Avete messo in risalto le loro storie?
Raccontiamo in particolare la storia di tre donne, Luisa Baccara, l’amante del Vate, eccelsa pianista, che, spinta dalla passione, decise di seguire D’Annunzio a Fiume. Nicolina Fabris, la «mamma degli arditi», una signora 60enne, di famiglia irredentista che aveva messo in salvo decine di soldati italiani fatti prigionieri degli austriaci per poi accogliere entusiasta i legionari all’entrata a Fiume. E infine Dora Blasic, una ragazza ventenne, assai emancipata che nel suo diario racconta la vita quotidiana di allora fatta di disagi ma anche di speranze. Non era tutto oro quello che luccicava, c’era miseria. A causa dell’embargo italiano, la bottega dei suoi genitori una volta molto conosciuta aveva gli scaffali vuoti. Ci sono tanti episodi anche divertenti, i pomeriggi al cinema e pure le manifestazioni di protesta organizzate dai serbo-croati in città.

La mostra su Fiume e i fiumani ai tempi di D’Annunzio è la prima tappa di una ricerca che il Museo porterà avanti anche nel corso delle celebrazioni per il 2020 quando Fiume sarà capitale europea della cultura. Ce ne può parlare?
La storia di Fiume è, secondo me, la cartina di tornasole di cosa può succedere quando la mistica della patria prende il sopravvento. Tutto quello che è venuto dopo in questa regione di frontiera ha la sua origine proprio nel 1919. Mi riferisco agli anni del fascismo e a quello che è successo dopo il 1945. Comprese le foibe. Che non giustifico, assolutamente, ma che sono il frutto avvelenato di queste pulsioni. Per questo presenteremo altre due mostre incentrate sul significato di confine, di frontiera. Le celebrazioni del 2020 serviranno a riscoprire Fiume come «Porto delle diversità». È l’intitolazione che abbiamo scelto, perché Il porto per definizione è aperto. Contrariamente ai muri che invece chiudono l’orizzonte.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento