Filmare è passione
Berlinale Wang Bing racconta «Ta’ang», girato sul confine tra la Cina e Myanmar, nel Triangolo d’oro, seguendo le minoranze etniche in fuga dalla guerra, tutti donne e bimbi
Berlinale Wang Bing racconta «Ta’ang», girato sul confine tra la Cina e Myanmar, nel Triangolo d’oro, seguendo le minoranze etniche in fuga dalla guerra, tutti donne e bimbi
Parlare con Wang Bing non è semplice, la lingua intanto, lui preferisce fare le interviste solo in cinese, e dunque la necessità del traduttore danno l’idea che si sta perdendo qualcosa. Eppure mentre lo si ascolta nelle sue risposte la distanza si annulla proprio come accade davanti ai suoi film che spalancano universi umani restituendone la quotidianetà con lucida partecipazione.
Wang Bing è uno dei grandi narratori per immagini del contemporaneo, la Cina che racconta nei suoi film, dai tempi di West of the Tracks (1999-2003) riflette il nostro tempo, i suoi conflitti, le sue contraddizioni. Lo stesso accade in Ta’ang, al Forum e chissà perché non in gara, racconto di migranti in fuga sul confine tra Myanmar e Cina, i Ta’ang del titolo, una minoranza etnica intrappolata nel Triangolo d’oro tra le violenze della guerra, gli interessi del governo birmano nella regione, il controllo dei trafficanti di droga. Per lo più donne e bambini con i quali Wang Bing costruisce nelle sue immagini una vicinanza umana e commuovente attraverso lo spazio, il tempo, la prossimità fra la macchina da presa, le persone e le cose.
Anche se rispetto agli altri suoi film – passati in Italia nei festival e in tv grazie a Fuori orario – quella sua ricerca di un punto di vista da cui l’intera azione può essere filmata si è dovuta confrontare con l’urgenza di una realtà in continuo movimento e piena di pericoli. La guerra e la paura fragile di chi in fuga non riesce a immaginare un futuro.
«Ta’ang» è stato girato mentre preparava un altro film. Cosa l’ha spinta a cambiare progetto?
Quel film raccontava le storie di ragazzi cinesi molto giovani costretti a lasciare le loro case per lavorare a Shanghai. Seguendo alcuni di loro siamo arrivati sul confine tra la Cina e Myanmar, nella provincia dello Yunnan, quando era appena iniziata la guerra. Ho incontrato delle donne che fuggivano con i loro figli piccoli e ho deciso di filmare i rifugiati. In quel momento non c’era nessuno a aiutarli, non erano presenti organizzazioni governative o altro, del resto noi non siamo un media governativo e per questo le condizioni di lavoro si sono presentate subito molto rischiose.
In che senso?
C’erano i militari, le gang, i trafficanti di droga e quella criminalità che sfrutta sempre la presenza di gente disperata. Tutti sapevano che non avevamo i permessi per girare e cercavano in ogni modo di fermarci. Non è stato semplice neppure fare accettare la presenza della macchina da presa ai profughi, molti avevano paura di essere filmati, e anche per questo abbiamo girato più scene di notte che di giorno. Quando siamo arrivati nel campo non abbiamo iniziato subito a riprendere. C’era una certa tensione anche da parte nostra, eravamo molto preoccupati per la situazione intorno a noi e per il modo in cui procedere. Ci chiedevamo come filmare queste persone, che tipo di inquadrature utilizzare e via dicendo. Poi piano piano con alcuni di loro si è creata una relazione, abbiamo imparato a conoscerci, siamo riusciti a trovare un modo per andare avanti.
Da quante persone era composta la troupe?
Tre, io, l’operatore e il produttore.
La maggior parte dei profughi sono donne e bambini, è il loro sguardo che racchiude il senso e il sentimento di questa storia.
Gli uomini rimangono indietro a prendersi cura delle case, delle proprietà, a occuparsi degli anziani che non sono in grado di affrontare il cammino. Spetta alle donne salvare i bambini dalla guerra.
Diceva della scelta di immagini notturne. È stata determinata solo dall’esigenza di proteggere i rifugiati?
No, l’immagine delle persone che parlano intorno al fuoco ha una forza teatrale, permette quasi di mettere in scena le parole. E rimanda a una dimensione orale e collettiva, in questo caso il racconto della loro vita in quel momento, che mi piaceva prendesse questa forma nel film. La notte poi si creava un’atmosfera più intima, penso alla scena con le donne che parlano tra loro nel campo di pannocchie, che trovo bellissima … Nel montaggio abbiamo dovuto fare delle scelte, avevo molte ore di materiale realizzato soprattutto nei primi giorni quando la situazione era più tranquilla. Dopo i combattimenti si sono inaspriti, abbiamo subito ogni tipo di pressione, io volevo tornare dalle donne ma non era possibile.
La sua presenza è dichiarata, in alcuni momenti le persone la guardano e sembrano rivolgersi a lei. È una scelta forte e molto bella quella di non nascondersi in un film come questo.
Mi sono chiesto per tutte le riprese se la mia macchina da presa potesse disturbare persone che vivevano già una tragedia così grande. Ho deciso di tenere i momenti in cui mi guardano perché è accaduto, e soprattutto perché riguarda il mio ruolo di regista. Per confrontarsi con realtà come questa è fondamentale mettersi in gioco, essere concentrati e rispettare l’altro. Non potrei filmare diversamente.
Il film segue i rifugiati in diversi luoghi. Quali?
Abbiamo girato in due campi profughi, Maidhe e Chachang. In entrambi le condizioni dei rifugiati cambiano continuamente, arriva sempre gente nuova. Alcuni provano a avanzare in territorio cinese, altri si spostano per lavorare, raccolgono la canna da zucchero per i coltivatori cinesi. Nel campo di Chachang abbiamo incontrato Jin Xiaoman e Jin Xiaoda fuggite coi loro figli e alcuni anziani del villaggio. Come le altre hanno paura, vivono nell’angoscia per quello che può accadere ai loro mariti rimasti a Myanmar.Hanno perduto tutto, vorrebbero dare di più a figli ma non guadagnano abbastanza.
Ci sono organizzazioni umanitarie che li aiutano?
Si anche se quando le abbiamo avvicinate ci hanno creato solo difficoltà. Portano il riso alle persone e qualche altro piccolo aiuto pure se per lo più i rifugiati sono soli.
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