In modo spontaneo la protesta studentesca all’università di Parigi 8 nella banlieue nord di Saint-Denis è iniziata prima dell’approvazione forzata della riforma delle pensioni all’Assemblea Nazionale. Il 16 marzo l’applicazione del terzo comma dell’articolo 49 della Costituzione è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, quando già molte iniziative erano partite.
Una cassa di mutuo soccorso è stata organizzata, diecimila euro sono stati donati dagli studenti agli operatori ecologici e ai lavoratori dei trasporti della capitale in sciopero dal 7 marzo. Altri tremila sono stati stanziati per coprire le spese legali degli studenti colpiti dalla repressione. Mentre ora nel «carré rouge», il quadrato rosso dell’ateneo è in corso un «festival dello sciopero». Una definizione ironica scelta per una settimana scandita da 40 ateliers, performances e assemblee con studenti, professori, dottorandi, amministrativi e precari.

«La mobilitazione è iniziata da tre, quattro docenti che si sono posti il problema di come unirsi al movimento senza perdere una gran parte degli studenti che, in caso di sciopero, non sarebbero più tornati in facoltà» sostiene Frédéric Rambeau, direttore del dipartimento Arti. È nata così l’idea degli ateliers il 20 febbraio scorso nella facoltà di filosofia. «Dopo quella prima giornata altri si sono uniti al movimento. Dal 21 marzo la mobilitazione si è allargata all’ateneo» aggiunge Rambeau.

Negli ultimi anni gli studenti francesi hanno dovuto subire la riforma traumatica della piattaforma «Parcoursup», un sistema algoritmico che seleziona i liceali per andare all’università, e l’isolamento causato dal Covid. Contro il mix letale di isolamento e concorrenza nel corso degli incontri si è manifestato il desiderio di «creare nuovi legami». «È per questo che abbiamo avuto l’idea, con alcuni compagni e professori, di creare nuove relazioni – dice Alessia Kapllani, studentessa di filosofia – possiamo dire di non aver previsto tutto, ma di averlo organizzato in qualche modo».

La mobilitazione si è costruita attraverso gli ateliers per mettere in discussione il sistema che governa gli studi e organizza il tempo. L’idea è sospendere l’istituzione concepita come un’impresa e creare un altro modo di studiare. «Se il tempo normale era scandito da monotonia e solitudine – sostiene Badis Kasdali, studente di filosofia – quello della mobilitazione apre la possibilità di nuove forme trasmissione dei saperi e agisce come catalizzatore di nuovi incontri».

Un altro problema è liberare la vita dal controllo algoritmico che misura la «produttività» e colpisce i «giovani» trattati come «fannulloni» o «falliti». Quest’anno dovranno affrontare la lotteria di Trova il tuo master. Questa piattaforma è considerata il simbolo di una violenta selezione sociale nel passaggio dai corsi triennali a quelli specialistici. Sylvie Retailleau, ministra dell’Istruzione superiore e della ricerca, l’ha presentata come uno strumento che «fa incontrare domanda e offerta» nei master. Il «reclutamento» richiede molto tempo ed è considerato «opaco» da studenti e professori. In facoltà come psicologia o a giurisprudenza l’iscrizione alla piattaforma è obbligatoria per accedere a molte professioni regolamentate. Il sistema è spesso arbitrario e bisogna accontentarsi di posti che non sono stati scelti. E sono in molti ad essere privati del diritto di proseguire gli studi.

Gli ateliers si oppongono al sentimento di passività e alla concezione strumentale dell’università che questo sistema incentiva. Badis Kasdali spiega che l’invenzione di nuove pratiche è stata una risposta a queste difficoltà: «Bloccare l’università avrebbe significato solo rimandare a casa gli studenti non politicizzati, mentre la creazione di una comunità politica è appunto uno dei nodi di questa mobilitazione». È così che si è passati da alcune giornate straordinarie con ateliers autogestiti all’attuale «festival dello sciopero».

La sfida è condivisa anche da alcuni professori, come Guillaume Sibertin-Blanc, che la definisce come «la reazione alla demoralizzazione, e alla depoliticizzazione indotta da questa organizzazione neoliberale che spinge alla depressione collettiva e individuale, una condizione che abbiamo visto crescere negli anni della pandemia».