Quale scrittore abbia ereditato il malcerto titolo di Sovrano di Redonda – ciò che gli consentirà di regnare sulla minuscola, disabitata isola caraibica il cui trono fu appannaggio di Javier Marías fino alla sua morte, dopo che il romanziere spagnolo era succeduto tra gli altri a M.P. Shiel, autore di La nube purpurea, capolavoro di fantascienza noto in Italia grazie all’impegno di Giorgio Manganelli e J. Rodolfo Wilcock – ancora non è stato chiarito. Il dominio sul desolato scoglio antillano, a malapena visibile sulle cartine, fu concesso a Shiel dalla corona britannica in cambio della promessa di non riceverne ulteriori seccature: così è cominciato lo «scherzo serio» che ha visto avvicendarsi al trono una ristretta serie di scrittori, nonostante qualche tentativo, serissimo, di usurpazione. Non è l’unico caso in cui le Antille hanno dato un contributo immaginifico alla letteratura del Novecento: muovendo dal sessantaduesimo al sessantunesimo meridiano, un altro punto in cui le isole caraibiche hanno fornito una geografia inattesa e ipotetica – ed è difficile che il curioso lettore stavolta possa scovare sulla mappa l’isola di Saint-Jacques des Alizés – si può «rintracciare» nel paradiso creolo favoleggiato da Patrick Leigh Fermor in I violini di Saint-Jacques, da poco ritradotto da Daniele V. Filippi e riproposto da Adelphi («Biblioteca», pp. 129, € 18,00) a sessant’anni dalla prima, fugace comparsa italiana (Feltrinelli).

Da un punto di vista strettamente letterario, Fermor aveva cominciato la sua lunga e avventurosa peregrinazione terrestre proprio dai Caraibi: ai suoi zig zag da un’isola all’altra alla fine degli anni quaranta si devono i suoi primi due libri. Il primo, intitolato L’albero del viaggiatore, fu tradotto da Garzanti poco dopo la sua edizione inglese, risalente al 1950, il cui sottotitolo era, appunto, A Journey Through the Caribbean Islands (oggi introvabile da noi, mentre è in catalogo nella «New York Review of Books Classics»); il secondo è appunto I violini di Saint-Jacques, inizialmente pubblicato a puntate su «The Atlantic» nel 1953: una novella sfavillante e densissima, in cui la pagina ha acquisito già la conformazione definitiva che si ritroverà nei leggendari travelogues dello scrittore inglese, quasi tutti pubblicati da Adelphi negli ultimi anni (alla collezione della trilogia che ricostruisce il lungo viaggio a piedi da Londra a Costantinopoli, composta da Tempo di regali (2009), Fra i boschi e l’acqua (2013), e il postumo La strada interrotta (2015), e dei libri «ellenici», Mani (2004), e Rumelia (2021), mancano ancora all’appello, per il lettore italiano, il viaggio tra i monasteri ortodossi narrato in A Time to Keep Silence, e il breve passaggio ispanoamericano Three Letters from the Andes).

Fermor appronta per il suo «Racconto delle Antille», come recita il sottotitolo, una cornice greca. La donna anziana che condividerà «per l’ultima volta» una storia della sua giovinezza, vive infatti a Lesbo, dove il narratore, uno scrittore inglese di passaggio, raccoglierà le sue confidenze. Questo escamotage favorisce una lettura dal sapore del tutto familiare per il lettore italiano che si avvicini alla novella dopo aver conosciuto Fermor attraverso i libri sopra citati, pur essendo essi posteriori a I violini di Saint-Jacques nella sua bibliografia: la narrazione che seguirà all’incontro fra la donna e lo scrittore, infatti, potrebbe benissimo confondersi nella miriade di digressioni, esotiche, di colore o erudite, a seconda della vena, delle quali Fermor è maestro. Perché, se è vero che si tratta dell’unica opera di finzione «pura» scritta da Fermor, non si può fare a meno di notare che il narratore si tradisce subito e volentieri quando, nelle primissime pagine, si lascia sfuggire che la storia della quale sta per mettersi in ascolto gli interessa perché, guarda caso, «dai Caraibi (…) ero appena tornato»; e, più avanti, rivelerà: «L’anno scorso, quando ero a Dominica e Guadalupa, alcuni pescatori mi hanno raccontato che chiunque percorra la rotta orientale fra le isole in tempo di carnevale può sentire un suono di violini che affiora dalle acque. Come se ci fosse un ballo in grande stile sul fondo del mare» (L’intero racconto potrebbe essere stato suggerito dunque da una leggenda popolare: puro Fermor!).

La donna gli racconta infatti un episodio cruciale della propria giovinezza, ambientata nel lusso tropicale dell’isola di Saint-Jacques: è una vicenda di intrighi romantici e decadenza, tra i discendenti degli schiavi e un’aristocrazia francese in declino. Tutto converge rapidamente in una ampia, maestosa sequenza finale, che si svolge la notte del ballo annuale del martedì grasso, quando il piccolo mondo antico dei creoli si trova di fronte alla catastrofe che travolgerà l’isola e tutte le storie che in essa sono racchiuse.

Il narratore di Fermor amalgama, fino alla dissoluzione, il racconto indiretto del personaggio femminile nella voce di una terza persona che si fa onnisciente, divagante, estremamente letteraria: un procedimento tecnico ardito, dalle potenzialità vertiginose, che verrà messo a punto e portato alle sue estreme conseguenze anni dopo dal Sebald di Gli emigrati, Austerlitz, e dell’indimenticabile Gli anelli di Saturno, il più «fermoriano» tra i libri dello scrittore tedesco.

Nella descrizione stupefatta dei fasti della cerimonia del ballo, Fermor esercita quella che nella brillante biografia a lui dedicata la scrittrice britannica Artemis Cooper chiama «sensibilità integralmente europea». È una scena che copre la maggior parte delle pagine, e nella quale lo scrittore inglese riversa il solito, eccentrico amore per gli elenchi, esibendo la sua potenza pittorica per poi accostarle nelle ultime pagine, in evidente contrapposizione, un’altra descrizione, dalla quale l’uomo è stavolta del tutto assente, e anzi della quale è vittima non designata: una eruzione vulcanica allo stesso tempo terrificante e meravigliosa, distruttiva e rigeneratrice.

I violini di Saint Jacques è anche il ritratto di una immaginaria colonia scomparsa, «la gloria delle Antille», attorno al 1900, immersa in un malinconico declino aristocratico, che anticipa di pochissimi anni alcune atmosfere che Tomasi di Lampedusa avrebbe raccontato nel ben più «ampio» Gattopardo (1958); in alcuni passaggi la novella di Fermor fa pensare, nella sua minuziosità descrittiva – un vero tour de force stilistico, a tratti stupefacente –, più che al romanzo, direttamente al film di Luchino Visconti e alla memorabile scena del ballo che lo conclude.

La miserabile grandeur dell’uomo, inquadrata nei Violini dalla sfarzosissima e chiassosa festa danzante, appare minima e trascurabile al cospetto della furia naturale: il vulcano in eruzione nel giorno di carnevale suggerisce alla protagonista, e al narratore, una qualche allegoria delle effimere vicende umane sulla terra, già ravvisabile nelle descrizioni lunghissime, presenti in tutta l’opera di Fermor, dalle quali l’uomo è tenacemente bandito (si pensi alla infinita corsa dei «Galli del Matapan», in Mani). Alla fine del suo racconto, la donna volge lo sguardo verso l’Egeo, e sospirando dice: «Che quarantaduemila formiche andassero distrutte sembrava una faccenda di poco peso e fondamentalmente priva di interesse tanto quanto il colpo di fortuna per cui una era riuscita a scappare. (…) Esplosioni, diluvi e glaciazioni, si potrebbe dire, sono le uniche vere date che marcano la storia, e ciò che le società umane improvvisano fra l’uno e l’altro di questi eventi – arte, civiltà, amore, guerre, letteratura, lo sviluppo e la fusione di una religione in un’altra, il movimento delle idee, il migrare del potere da un continente all’altro – ha tanto peso su questo calendario fondamentale di giornate epocali quanto una pagina dei Ricordi di un entomologo di Fabre». Un altro piccolo, meraviglioso «lapsus» del narratore: chi dei due interlocutori avrà letto i raffinati Ricordi di Jan Fabre? La solitaria, malinconica émigrée, o piuttosto lui, il dotto scrittore di viaggi che le presta la voce?