«L’arte è una pratica, non è un obiettivo, continui semplicemente a camminare lungo un sentiero». Devendra Banhart è come sempre chiaro e puntuale nell’uso delle parole. Che ne conosca valore e potenza espressiva lo ha dimostrato lungo tutta la sua carriera discografica che ad oggi conta tredici album in studio.

Lo abbiamo incontrato lungo il sentiero da lui evocato che al momento lo colloca a metà tra l’ultimo Flying Wig, disco melanconico e crepuscolare edito nel 2023 dalla Mexican Summer, ed il prossimo, ancora in divenire, a cui sta attribuendo sostanza e forma.

L’occasione per una chiacchierata nel mezzo del cammino è stata la sua presenza a Roma presso la Fondazione Nicola Del Roscio per la seconda edizione di «Un/veiled», una serie di eventi incentrati sugli artisti che hanno tratto ispirazione dalle opere del pittore statunitense Cy Twombly a cui la rassegna è dedicata.

Il programma multimediale stilato dai curatori Nicola Del Roscio (presidente della omonima fondazione e della Cy Twombly Foundation) e Eleonora Di Erasmo, ha preso il via lo scorso 24 maggio con una stazione d’ascolto dedicata al compositore statunitense Morton Feldman per proseguire il giorno successivo con il concerto appunto di Banhart, a cui hanno fatto seguito il 30 maggio quello del trio jazz guidato da Myra Melford e il 7 giugno un dialogo a due voci del poeta Dean Rader e dello scrittore Carlos Peris.

A chiudere il cartellone saranno la danza con Michèle Murray e il live di Eraldo Bernocchi e Rita Marcotulli, rispettivamente il 22 e 29 giugno. Banhart, autore di un convincente set solista voce e chitarra in cui ha pescato dal suo ricco repertorio, è centrale in questa seconda annualità di «Un/veiled» grazie anche alla mostra Total Pink Cosmos in Square White Cloud (fino al prossimo 5 luglio alla Fondazione), in cui si rintracciano suoi dipinti, disegni e poesie che ne presentano l’altro lato artistico a cui è da sempre devoto.

Circostanza che chi segue il re del freak folk sin dagli esordi avrà sicuramente notato. Dopo la prima pubblicazione discografica The Charles C. Leary dell’estate 2008 – rammentiamo che ne esistono due versioni, la prima autoprodotta in musicassetta e la seconda stampata dalla label francese Hinah in circa cinquanta copie – il successivo e seminale Oh Me Oh My… stampato dalla Young God Records di Michael Gira conteneva in copertina e all’interno illustrazioni da lui curate.

GIUSTA ARMONIA

Eguale situazione troviamo anche in buona parte delle uscite successive. Osservando con attenzione le sue numerose opere illustrate raccolte nello spazio espositivo della Fondazione Del Roscio, si avverte una continua sensazione di intimità che rammenta quella degli artwork dei suoi dischi.

Racconta: «Alcuni di questi disegni hanno vent’anni, altri meno di una settimana. Sono un po’ scioccato perché credo di dipingere ancora cose molto simili ad allora. Forse non è cambiato molto: da una parte lo trovo un po’ deprimente, dall’altra sono meravigliato dal fatto che reputo ancora interessante disegnare cose che si somigliano. Io lavoro in modo da non avere una sola pagina su cui mi concentro, ne ho migliaia e faccio centinaia di dipinti per arrivare a finirne uno che mi soddisfi. Non so se è una buona strategia, non è pratico come metodo, ma è quello di cui ho bisogno: mille versioni dello stesso disegno per arrivare ad una in cui tutto è al posto corretto, che includa la giusta armonia».

Banhart, mai banale nelle conversazioni alle quali aggiunge sempre una punta d’ironia per non prendersi eccessivamente sul serio, così presenta la propria attività come artista visuale: «Ho un’immagine di me stesso che dipingo con la musica in sottofondo. Ho persino una playlist chiamata Painting lunga otto ore, che spazia dall’ambient alla cumbia, ma non l’ascolto mai. La maggior parte delle volte dipingo in silenzio, oppure ascolto due o tre canzoni in loop o un podcast, perché alla fine mi concentro sul disegno dimenticandomi della musica. Per esempio, potrei sentire in loop Für Alina di Arvo Pärt (da Alina, Ecm, 1999), oppure Thursday Afternoon di Brian Eno (da Thursday Afternoon, Eg Music/Polydor, 1985), perché ad un certo punto non percepisco nemmeno più la musica, mi concentro solo sulle figure… e quando cominciano a prendere forma, ad avere una certa armonia, è come se il suono venisse fuori dalle figure e potessi ascoltare solo quello».

Al contrario della sua musica, Banhart è poco incline a raccontare i suoi lavori, per sua stessa ammissione: «Non mi piace pronunciarmi sul mio lavoro perché ne sono ossessionato… Preferisco parlare di altri artisti, di quello che fanno e dell’arte in generale. Ad esempio, alcuni dei miei musicisti preferiti sono pittrici e pittori, o lavorano in campo interdisciplinare. La prima persona che mi viene in mente è Laurie Anderson, con tutti i suoi ambiti espressivi: illustrazioni, musica, danza, poesia e forme di arte che ha inventato lei stessa. È la forma definitiva dell’artista, perché lavora in tutte le discipline che fanno parte della sua identità. Poi ci sono state persone come Daniel Johnston, che è stato un incredibile artista e avrebbe tranquillamente potuto dedicarsi alle arti figurative. È stato uno dei migliori cantautori di tutti i tempi, così enigmatico e tragico, così straziante e meraviglioso. Un altro dei miei scrittori, cantanti, pittori e performer preferiti è Adam Green. Penso pure a Walter De Maria, altro artista incredibile, anche batterista”.

PRE VELVET

Walter Giuseppe De Maria, palese provenienza familiare italo-americana, dopo alcuni studi iniziali con il pianoforte abbandonerà lo strumento per dedicarsi alla batteria. Le intenzioni erano delle migliori se si considera che a soli sedici anni si era iscritto al locale sindacato dei musicisti dalle sue parti ad Albany, California. Classe 1935, si laurerà a Berkeley nel 1957. Nel frattempo la passione per la musica a cui dava seguito in varie formazioni del posto veniva pian piano rimpiazzata da quella per la scultura. Farà comunque in tempo a essere il batterista dei Primitives, la band embrione dei futuri Velvet Underground. Inoltre tra il 1964 e il 1968 registrerà Ocean Music e Cricket Music, due suite di circa ventuno minuti cadauna di stampo free jazz minimalista poi coinfluite nell’album autoprodotto Drum and Music del 2000. Pregevole la seduta di incisione in I Don’t Wanna, vinile del 1964 con la band di stampo pre-punk e rock-blues Henry Flynt & The Insurrections (Locust Music, 2004).

Abbandonato il palco, diventerà pittore e scultore di fama mondiale, noto anche per le sue installazioni di enormi dimensioni come The Lightning Field del 1977, poco meno di quattrocento pali in acciaio inossidabile disposti in forma geometrica per oltre un miglio nel New Mexico. Non universalmente noto come De Maria ma senza dubbio intrigante è il profilo di Adam Green, nato a New York nel 1981. È la metà della folk band Moldy Peaches, in giro dal 1994 e giunta alla notorietà grazie alla presenza nella colonna sonora del film Juno di Jason Reitman.

Il gruppo, sopratutto nel disco omonimo The Moldy Peaches (Rough Trade, 2000), ha un respiro folk che palesa dei tratti in comune con gli esordi di Banhart. Carriera solista di Green ben più prolifica e da cui emergono con colori maggiormente bluesy e folk rock, gli album Gemstones (Rough Trade, 2005) e Aladdin (Revolver, 2016): quest’ultimo è la colonna sonora del suo secondo film, come regista, Adam Green’s Aladdin.

PELLICOLA MILITANTE

Si tratta di una pellicola visionaria e militante al tempo stesso, che vede presenti tra gli altri Alia Shawkat e Macaulay Culkin. Green si è occupato anche dei disegni della sceneggiatura in cartapesta, che discende dalla sua attività come pittore.
L’artista vanta anche un pubblico dalle nostre parti dove si è esibito più volte anche recentemente, con al fianco Francesco Mandelli con cui ha avuto anche un passaggio televisivo nel talk show Stasera c’è Cattelan su Raidue a marzo 2023. Con Laurie Anderson nella testa e nel cuore, Banhart spiega in che modo visioni sonore ed illustrate abbiano un senso nel suo operare: «Come dicevo credo che Laurie sia l’esempio perfetto di artista interdisciplinare. Sai, la relazione tra l’arte figurativa e la musica ovviamente è stretta. Infatti, quando ho iniziato non sapevo come terminare le canzoni, quindi le finivo con un disegno e viceversa. Poi ho iniziato a separarle come in una biforcazione, a dedicare tempo separatamente alle incisioni e all’arte e all’improvviso… non erano più così inestricabili come prima. Ho trovato il mio equilibrio, sono riuscito a bilanciare le due cose che hanno iniziato a interagire: per esempio, creando un album serio come Flying Wig, che tratta temi assai importanti come solitudine e nostalgia, disperazione e mancanza di speranza, per compensare ho realizzato dei disegni grezzi, adolescenziali e naïf, come genitali e cose del genere. Stupidi, orrendi, ma li dipingevo finché non ridevo, contrapponendoli alle tristi canzoni scritte in contemporanea. È bellissimo avere queste due discipline che si alimentano a vicenda, perché allo stesso tempo posso prendermi una pausa dall’una o dall’altra. È diverso da Laurie, perché l’intero pezzo nel suo caso è fatto di tutte le discipline, che trovi assieme in una sola performance. È l’arte perfetta, persino più del cinema».

Esattamente come è nel suo stile, dove con un’attitudine libertaria e svincolata dai generi ha saputo costruire qualcosa di altro partendo dal folk statunitense e latinoamericano; anche l’eloquio è freak nella migliore accezione del genere. E al contempo, profondamente sincero quando delinea la passione per il blues. Seguendone i ragionamenti, tornano alla memoria meravigliosi episodi come la sua clamorosa versione di Sligo River Blues di John Fahey, contenuta nella raccolta I Am the Resurrection: A Tribute to John Fahey della Vanguard, edita nel giorno di San Valentino del 2006. Dal suo splendido Rejoicing in the Hands (Young God Records, 2004) emergono le incisioni This Is the Way e There Was Sun palesemente figlie di Mississippi John Hurt.

UN CLASSICO

Da brividi è la riproposizione dal vivo, facilmente reperibile online, di Shake Sugaree, un vecchio classico della blues woman Elizabeth Cotten; prosegue: «Amo quando il soggetto di un artista sono i suoi colleghi, è un omaggio all’arte. Per esempio, se fai blues per onorare coloro che hanno creato quel mondo… è stupendo. Ero e sono ossessionato da Skip James, Son House, Blind Willie McTell e, soprattutto, Mississippi John Hurt e Blind Willie Johnson, che potrebbe essere il cantante più trascendentale al mondo. Howlin’ Wolf è potenza cruda e sporca. È come ascoltare Diamanda Galás, è come una mamma gatto che prende il cucciolo per la collottola. È così che mi fanno sentire queste voci taglienti, che ti arrivano fino al midollo. Mentre per quanto riguarda le melodie, ascoltare quelle di Mississippi John Hurt significa sentire la stessa fluidità e poesia di Caetano Veloso. La versione di Frankie del 1928, è una della canzoni più dance di sempre, ti fa venire voglia di muoverti. Ho sempre ammirato la Fat Possum e anche John Fahey. Grazie al suo libro del 1970 su Charley Patton mi sono interessato a questo bluesman. Gli album di quei tempi sono così mistici che non riesco a immaginare che quell’era sia esistita e che fossero persone reali. Riesci a pensare a cosa sarebbe stato vederli dal vivo? È come essere a Roma, dove la storia antica esce fuori da ogni angolo, come l’erba che spunta da un sampietrino… la vostra città antica emerge da ogni crepa, Non capisco come si faccia a non essere totalmente ossessionati dal blues».

Le parole e i pensieri scorrono, includendo Doc Watson e Mance Lipscomb, il film documentario del 1963 The High Lonesome Sound girato da John Cohen, il brano di Blind Willie Johnson Dark Was the Night incluso nel «Golden Record» spedito nello spazio a bordo del Voyager, i suoi innumerevoli viaggi nella provincia statunitense e le riflessioni relative al vissuto personale tra l’era analogica e quella digitale. La curiosità onnivora, i molteplici talenti artistici e la capacità di essere permeabile a mille suoni e altrettante storie, fanno ben comprendere come e perché sia considerato il nome di riferimento del mondo psych folk e freak folk. Il suo profilo si erge nel fulgore creativo dei primi quindici anni dei Duemila, contraddistinto da un’abbondanza di uscite discografiche di valore come For Emma, Forever Ago di Bon Iver (Jagjaguwar, 2007), Noah’s Ark per le CocoRosie (Touch And Go, 2005), Monarcana di Diane Cluck (Very Friendly, 2006), Poor Moon per Hiss Golden Messenger (Paradise Of Bachelors, 2011), Gather, Form & Fly dei Megafaun (Hometapes, 2009), Carrie & Lowell di Sufjan Stevens (Asthmatic Kitty Records, 2015), Tight Knit dei Vetiver , L’un marquer contre la moissonneuse per Wooden Wand & The Vanishing Voice (Three Lobed Recordings, 2005).

Senza tralasciare un’altra perla come Compathía (Holy Mountain, 2003) di Six Organs of Admittance, dietro cui si cela il geniale Ben Chasny con cui condiverà l’avventura discografica in The Black Swan (Drag City, 2006), firmato da Bert Jansch. Un disco epocale quello assieme al cantautore scozzese, leggenda del British folk revival, legato ai Pentangle: con loro furono della partita anche Beth Orton e David Roback (Opal, Mazzy Star).

Banhart e chiunque altro in quel periodo storico sono stati probabilmente una reciproca influenza l’un per l’altro, ognuno a suo modo. Non a caso l’anno seguente, 2007, per XL Recordings, Devendra stampa Smokey Rolls down Thunder Canyon, lavoro imprescindibile dove brilla in tutta la sua poliedricità, riuscendo a scrivere ballate ’70s come Sea Horse, oscillanti dub-reggae come The Other Woman, oltre a hit senza tempo come Carmensita, Cristobal, Bad Girl e Samba Vexillographica.

ARTE VENEZUELANA

Le influenze latinoamericane derivanti dal lungo periodo passato a Caracas in età giovanile fuoriescono vivaci e colorate. Un’epoca formativa che porta con sé. «Mi piaceva – racconta – l’arte venezuelana che a quei tempi era popolare. Ovunque tu andassi, non potevi evitare salsa, merengue e cumbia. Simón Díaz era in televisione e vendeva i cereali, perciò era un’icona, un padre della nazione. Ma solo dopo l’ho scoperto come musicista con le sue tonadas. Il modo in cui cantava, parlando di fantascienza e trascendenza inquietante, mi mette i brividi ancora oggi e i testi e le storie che raccontava erano potenti e sovversivi per quei tempi: non si poteva farlo così esplicitamente contro il governo totalitario, era pericoloso, ma lui vi riusciva cantando della natura e delle persone che vivevano nei campi, glorificandole. Simón riesce ad essere sovversivo senza essere quasi mai politico, tranne in una canzone intitolata Guillermina.

Visivamente, l’artista più famoso venezuelano era Carlos Cruz-Diez. Minimalista, faceva parte del mondo dell’arte cinetica, molto popolare in Venezuela a partire dagli anni Settanta-Ottanta. Ad affascinarmi è stata soprattutto l’arte colombiana con Botero… a quale bambino non poteva piacere uno come lui? Questo perché la Colombia aveva molta cultura che a noi non era permesso sviluppare. Essere cresciuto in Venezuela mi ha influenzato e continua a farlo ancora oggi. Nel frattempo, oltre ad aver adottato un gatto, che è un progetto impegnativo, sto anche lavorando al prossimo album. Non so ancora come sarà, ma questa mostra che è in bianco e nero, mi ha fatto venire voglia di spostarmi sul colore. Inoltre, qualche settimana fa ero in Brasile, a Porto Alegre, qualche giorno prima dell’alluvione. È tremendo cosa è accaduto. Quel ricordo lo porterò con me; e poi ho in programma anche un viaggio in Giappone, tutte queste cose finiranno nel nuovo disco».