Nell’ampia messe di pubblicazioni che ricordano nel centenario della Marcia su Roma (28 ottobre 1922) l’intera vicenda storica del fascismo, spicca il ricco volume curato da Gianfranco Pasquino per i tipi di Treccani (Collana Visioni, pp. 438, euro 27). Attraverso una ventina di voci, affidate ad altrettanti tra storici e politologi – tra loro, Simona Colarizi, Giuseppe Parlato, Mario Avagliano, Santo Peli, Alessandro Campi e Marco Tarchi -, che muovono dalle origini del fenomeno per giungere fino al possibile lascito odierno dell’eredità mussoliniana, Fascismo. Quel che è stato, quel che rimane illustra in modo approfondito, ma con lo strumento della sintesi, le molte sfide che tale vicenda, anche al di là della stretta congiuntura politica, continua a porre al nostro Paese.

COME SOTTOLINEA con precisione Gianfranco Pasquino nell’introduzione al volume, dopo aver riassunto le molte e talvolta contraddittorie interpretazioni che ne ha offerto il dibattito storiografico, «il fascismo non fu il prodotto di un’ideologia fatta di principi rigidi, coesi, concatenati, né la produsse. Piuttosto, si basò su una mentalità fatta di atteggiamenti, valutazioni, orientamenti, che avevano tradizioni e radici nel pensiero politico italiano e nella “cultura” delle masse popolari, contribuendo a rafforzarla». Una precisazione necessaria specie per accompagnare la riflessione di lungo corso che il volume si propone di sviluppare, valutando di volta in volta il passato anche alla luce delle sue, per quanto indirette, ricadute contemporanee.

PERCHÉ SE È CHIARO che una tale rigorosa ricostruzione delle vicende storiche e delle molteplici interpretazioni che ne sono state offerte in sede analitica non può che condurre ad affermare che «il fascismo, in quanto prodotto di una configurazione di eventi sostanzialmente irripetibili, non tornerà», è altrettanto evidente che il presente sembra invece moltiplicare i quesiti in tal senso. Non a caso, è in tale direzione che si muove l’intervento di Gianfranco Pasquino che chiude il volume e dove l’emergere dei nuovi populismi è letto proprio alla luce della discontinuità ma anche degli interrogativi aperti che le odierne minacce alla democrazia pongono se misurate con l’esperienza novecentesca.