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Famiglia Regeni: «Il rientro dell’ambasciatore in Egitto è stato un fallimento»

Famiglia Regeni: «Il rientro dell’ambasciatore in Egitto è stato un fallimento»Fiaccolata per Giulio Regeni a Torino – LaPresse

Caso Regeni A sei mesi dall'annuncio ufficiale e da cinque dall'invio di Cantini in Egitto, non ci sono passi avanti. La famiglia chiede un'immediata inversione di rotta perché il ritorno al Cairo «non abbia il sapore di una resa»

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 14 febbraio 2018

Sei mesi fa l’annuncio del rientro dell’ambasciatore italiano al Cairo, cinque mesi fa l’insediamento ufficiale. Ma di novità sul caso Regeni non ce ne sono state, se non la consegna lo scorso dicembre alla famiglia di Giulio dell’incartamento della procura egiziana.

Ed è proprio la famiglia, in occasione del 14 febbraio e della scorta mediatica che cade ogni 14 del mese da agosto, a parlare chiaramente di «fallimento»: la missione di Giampaolo Cantini, scrivono in una nota i genitori, «doveva consentire il raggiungimento della verità processuale su tutto il male del mondo inferto su nostro figlio».

«Crediamo sia necessario un immediato cambio di rotta, pretendere senza ulteriori indugi un incontro tra le due procure finalizzato all’immediata consegna dei video della metropolitana», quelle registrazioni delle telecamere di sicurezza che a ferragosto la Farnesina aveva spacciato come la condizione per il ritorno dell’ambasciatore in Egitto.

Così non è stato, due anni dopo dei video non c’è traccia né esiste un’intesa su chi dovrebbe recuperare le immagini: i video non sono mai stati consegnati, nonostante la promessa egiziana ribadita il 14 agosto dalla procura generale, né si hanno dettagli sulla ditta che dovrebbe provvedere al loro recupero.

A ciò si aggiunge l’ennesimo ostacolo posto dal Cairo, ovvero l’assenza di reazioni «sull’informativa italiana che ricostruisce le precise responsabilità di nove funzionari di pubblica sicurezza egiziani perfettamente individuati». Per questo è necessaria, aggiungono «la concertazione di una strategia investigativa comune sulle nove persone già identificate come responsabili dai nostri investigatori e magistrati. Solo così la presenza dell’ambasciatore al Cairo non avrà il sapore di una resa ma acquisterà la dignità di una pretesa e, possibilmente, di una conquista di giustizia».

«Temevamo che questo gesto sarebbe stato interpretato come una resa incondizionata a quel potere che ha annientato Giulio e che occulta impunemente la verità da ormai due anni – continua la nota – E in effetti l’ambasciatore Cantini non aveva ancora fatto in tempo ad insediarsi che le autorità egiziane, forti di questa “normalizzazione dei rapporti”, provvedevano a oscurare il sito della Ercf, l’ong alla quale appartengono i nostri consulenti egiziani; arrestare in aeroporto l’avvocato Ibrahim Metwaly che stava recandosi a Ginevra invitato dall’Onu a riferire sulle sparizioni forzate e sul caso di Giulio; disporre una perquisizione e un tentativo di chiusura di Ecrf».

Un filo rosso lega obiettivi e strumenti dell’articolata macchina istituzionale della repressione, che ingurgita giovani giornalisti (gli ultimi due desaparecidos, Hassan al-Banna e Mustafa al-Aasar, scomparsi il 3 febbraio), che tiene in prigione da quattro anni il fotoreporter Mahmoud Abu Zeid, reo di aver testimoniato il massacro di mille sostenitori dei Fratelli Musulmani a Rabaa nell’agosto 2013 (ieri il processo è stato rinviato per la 48° volta), che detiene leader dell’opposizione e ne incarcera i portavoce (sempre ieri è stato arrestato Hisham Genena, ex capo dell’anti-corruzione e responsabile della tentata campagna elettorale di Sami Anan, generale che ha provato a candidarsi alle presidenziali).

Quel filo ha stritolato anche Giulio, impegnato in Egitto in una ricerca sui sindacati indipendenti, figli della rivoluzione di piazza Tahrir e spina nel fianco del golpista al-Sisi. Come ha detto il pm Pignatone in una lettera ai giornali lo scorso 25 gennaio: «Giulio è stato ucciso per le sue ricerche, ed è certo il ruolo dei servizi».

Certezze che rimbalzano sul muro di gomma eretto dal presidente al-Sisi, lo stesso che di nuovo a fine gennaio, accanto all’ad di Eni Descalzi, all’inaugurazione del mega giacimento di Zohr, ribadiva la fittizia volontà di collaborare del Cairo. Conscio che di punizioni non ce ne saranno, che gli interessi politici ed economici sono più che sufficienti a calpestare la verità per Giulio e per milioni di egiziani intrappolati da un regime repressivo e dittatoriale.

La famiglia Regeni chiede conto. Al governo e allo stesso Cantini che domenica, incontrando il premier egiziano Ismail, tornava a chiedere «risultati definitivi» dopo aver trascorso gli ultimi cinque mesi a stringere intese o a imbastire nuove collaborazioni.

Pochi giorni prima, l’8 febbraio, il caso tornava in Europa: dopo la richiesta di verità formulata in una risoluzione del marzo 2016 dal parlamento europeo, Strasburgo si è rifatta viva per denunciare «l’assenza di progressi nell’inchiesta» e esprimere «sdegno per la tortura e l’uccisione di Giulio».

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