Non fosse morta precocemente nel 2008 nel mare di Formia, con Fabrizia Ramondino ci saremmo ritrovati certamente insieme alla grande manifestazione romana dello scorso 25 novembre, nelle file delle compagne napoletane, come sempre le più estroverse e animate.

Fabrizia era molto attenta alla questione di genere e tutta la sua vita è stata una lotta per uscire dalle convenzioni borghesi o, diciamo pure, “comuniste”, attenta a un sistema di valori molto più vasto e radicale.

La pubblicazione recente dei suoi scritti politici nella Collana del pensiero radicale di e/o ha attirato l’attenzione di molti, e soprattutto di molte, che conoscevano Fabrizia come scrittrice e romanziera ma non come militante e saggista politica. È un periodo ancora tutto da studiare quello del passaggio dal femminismo, diciamo così, storico/post-resistenziale a quello più legato ai discorsi di genere, venuto subito dopo, che ne allargava il fronte.

Il percorso di Fabrizia è uno dei più vivaci tra quelli seguiti dalle intellettuali italiane dal dopoguerra al 2008. Fabrizia era una grande narratrice ma era anche una grande compagna. La parola “compagno/compagna” è andata col tempo perdendo di significato, ma ricordo benissimo che un tempo si chiamavano tra loro “compagni” non solo i comunisti e i socialisti, ma anche i repubblicani, anche le “terze forze”.

Ricordo con emozione certe riunioni in cui Ugo La Malfa, repubblicano, si rivolgeva a Pietro Ingrao, comunista, chiamandolo “compagno”. Nella storia del movimento operaio europeo, americano e russo, la parola “compagno/compagna” aveva un significato davvero radicale: se si era “compagni” e “compagne”, si era sullo stesso fronte, maschi e femmine, come hanno raccontato tanti scrittori e scrittrici europei, russi e americani. Un’accezione larga del termine di cui si ritrovano le tracce nella letteratura socialista tra fine ottocento e primi del novecento, fino alle crisi degli anni ‘30 e alle Resistenze, al dominio e alle astuzie del Capitale, cioè del mercato.

Le inchieste di Fabrizia sui disoccupati organizzati o tra i sarawi o tra gli operai di Bagnoli e di Pomigliano d’Arco, e ovviamente tra le donne che avevano preso parte a lotte faticose e rischiose negli anni dei fascismi e dei capitalismi, non erano mai fine a se stesse, accademiche o giornalistiche. Erano inchieste militanti. Ricordo certe conversazioni, salendo verso corso Vittorio Emanuele dalla Napoli dei vicoli, per accompagnare Vera Lombardi, grande militante socialista, in cui io tacevo rispettosamente di fronte alle considerazioni quanto mai pregnanti e serie sulle lotte delle donne, sulla condizione femminile, in particolare in una città come Napoli, nei vicoli di Montesanto, o dei quartieri spagnoli.

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Grande Fabrizia! Che non cambiava linguaggio passando con estrema tranquillità tra le donne dei vicoli e certe grandi intellettuali come Morante e Ortese. Ricordo con una certa emozione che, se fui io a introdurla alla Morante, fu lei a introdurmi alla Ortese. Due donne che più di altre mi hanno aiutato a capire molte cose e ad avere anche del femminismo una visione molto concreta insieme a una visione più teorica ed elevata.

Sono davvero spiacente di non essere potuto andare a Itri il 26 novembre, dove si andava spesso a trovare Fabrizia nei suoi ultimi tempi, ma me lo ha impedito lo stato di salute. Era molto legata a questa piccola comunità e alle sue difficoltà e anche alle sue contraddizioni, che, diceva spesso, erano infine lo specchio di una società più vasta.

Cara Fabrizia! Ci manchi e ci mancherai ancora molto nel confuso panorama della politica italiana di oggi, dove tu riuscivi a trovare le congiunzioni tra le lotte degli operai, dei disoccupati organizzati e delle donne, in particolare di quelle che di lotta avevano più bisogno, perché erano le più oppresse da una tradizione ipermaschilista come quella dell’Italia di allora (e forse ancora di oggi). Manca molto Fabrizia Ramondino, non solo alle sue amiche e ai suoi amici, ma anche alla cultura italiana degli anni di lotta, lotte sociali e culturali, non solo “politiche”. Anche nel suo modo di esprimersi, spesso affannoso, si riconosceva in Fabrizia l’ansia di ricerca di un mondo migliore per tutti. E cioè: di socialismo.