Internazionale

Evo contro Luis, in Bolivia lotta fratricida nella sola sinistra indigenista al potere

Scontri a La PazScontri a La Paz – Ap

Il primo presidente aymarista contro il suo successore Il "movimiento al socialismo" si spacca tra Morales e Arce. Scontri a La Paz per la marcia "evista" contro gli "arcisti". In ballo c’è il ritorno del leader cocalero

Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 25 settembre 2024

Evo Morales l’ha chiamata la “Marcia per salvare la Bolivia” e il governo la “Marcia della morte”, ma quella che si è conclusa a La Paz è stata definita anche, e assai più propriamente, come la “Marcia del Mas contro il Mas”, l’atto culminante di un’indecorosa lotta di potere che si prolunga da tre anni all’interno del Movimento al Socialismo, il partito che governa il paese sotto la presidenza di Luis Arce.

La marcia era partita il 17 settembre da Corocullo con 18 richieste ma, in fondo in fondo, un solo obiettivo prioritario: il riconoscimento della candidatura di Morales per le presidenziali del prossimo anno.

A proclamarlo candidato unico del Mas era stato, già nell’ottobre del 2023, un congresso del partito a cui avevano preso parte solo i suoi sostenitori – e che per questo era stato successivamente annullato dal Tribunale supremo elettorale – finché i magistrati del Tribunale costituzionale plurinazionale non avevano stabilito, facendo un chiaro favore ad Arce, il limite di due mandati, continui o discontinui che siano.

Una sentenza controversa, dal momento che erano stati gli stessi giudici – ma il governo a cui obbedire era all’epoca quello di Morales – ad autorizzare la ricandidatura alle elezioni del 2019 del già tre volte presidente, in quanto diritto umano garantito dai trattati internazionali, malgrado gli elettori, nel 2016, avessero bocciato la possibilità di un ulteriore mandato.

Quanto quella ricandidatura sarebbe costata al paese è storia nota.

Ma a riprendersi il potere Morales non ha mai, neppure per un attimo, smesso di pensare, fin dal suo ritorno in Bolivia dopo la poco onorevole fuga durante il colpo di stato del 2019. Senza, tuttavia, comprendere allora due punti essenziali: che la vittoria nel 2020 contro le forze golpiste non era sua ma del popolo e che Luis Arce, il suo ex ministro dell’economia da lui imposto come candidato contro la volontà della base, non si sarebbe limitato a tenergli calda la poltrona presidenziale.

Non sorprende che i problemi siano cominciati subito: prima con l’entourage del presidente, poi con il vice Choquehuanca e infine con lo stesso Arce, il quale, da parte sua, è sempre apparso più impegnato a contrastare le ambizioni di Morales che ad affrontare una crisi economica diventata via via più grave, come indica la penuria di carburante, a causa del crollo della produzione di gas, e la carenza di dollari, con conseguente aumento del costo della vita.

Da allora il tono dello scontro non ha fatto che alzarsi – ancor più dopo la decisione di Arce di realizzare a dicembre un referendum proprio sulla questione della rielezione presidenziale – fino a quest’ultima clamorosa protesta pro domo sua portata avanti dall’ex presidente.

Dopo sette giorni, poco meno di 200 chilometri a piedi, un mare di polemiche e numerosi scontri registrati lungo il percorso tra gruppi di “evisti” e di “arcisti” – con un bilancio di almeno 38 feriti – la marcia è arrivata lunedì a La Paz, dove si sono affrontati nuovamente i sostenitori dei due leader del partito di governo.

E a nulla sono finora serviti gli inviti al dialogo rivolti da Arce: i sostenitori di Morales, che chiedevano che fosse il presidente a scomodarsi venendo alla marcia a dialogare con loro, avevano persino aggredito un rappresentante del governo arrivato alla località di Ayo Ayo per consegnare la lettera di invito.

La protesta, insomma, non finisce qui: il leader cocalero, che ha pure denunciato l’esistenza di un piano per ucciderlo, ha mandato un nuovo avvertimento: se il presidente «vuole continuare a governare dovrà cambiare i ministri narcotrafficanti e corrotti, razzisti e fascisti», ha dichiarato senza però fare nomi. In caso contrario, ha detto, attirandosi l’accusa di attentare all’ordine democratico, «continueremo con le mobilitazioni per dire basta al tradimento, alla corruzione, al traffico di droga e alla cattiva gestione».

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