Etiopia, una transizione con tutti i dolori del passato
Il premier Abiy Ahmed ora tira fuori il "medemer" per «trovare una sintesi tra punti di vista diversi e persino contrari». Ma rischia di diventare un riformista che promuove il cambiamento con la forza delle armi
Il premier Abiy Ahmed ora tira fuori il "medemer" per «trovare una sintesi tra punti di vista diversi e persino contrari». Ma rischia di diventare un riformista che promuove il cambiamento con la forza delle armi
Come succede alla vita delle persone anche per gli Stati le situazioni di miglioramento possono presentare effetti avversi. Se vi è mai capitato di accogliere una persona in difficoltà che ha passato molti anni in strada, avrete osservato che il primo effetto, dopo l’euforia dello stare al caldo, è il venir fuori del dolore. Finché la persona è impegnata quotidianamente per sopravvivere, i problemi “minori” restano in secondo piano, ma una volta che si ha un posto, la tranquillità fa emergere la sofferenza. Il non dover lottare fisicamente attiva i ricordi rimossi dalla strada. Quindi paradossalmente l’accoglienza peggiora la situazione.
Così, ceteris paribus, in Etiopia la transizione democratica della libertà sta facendo venire fuori tutte le tensioni e i dolori passati di quello che potremmo chiamare Stato militare. Il processo di cambiamento per essere effettivo non può che essere graduale perché non si può cambiare una classe dirigente in un istante. Nel contempo chi sostiene Abiy Ahmed chiede risultati immediati, vuole vedere i fatti ed è questa la tenaglia in cui si trova ogni riformatore: andare più veloce dell’orizzonte delle aspettative dei suoi sostenitori e superare l’inerzia dei suoi detrattori. Dopo che per trent’anni il Tplf ha portato avanti l’idea di un Paese fatto di Stati mono-etnici (creati dalla costituzione federale introdotta nel 1995) dove le minoranze sono invitate ad andarsene.
C’è stata una politicizzazione costante dell’etnia che ha fossilizzato una società caratterizzata dalla sua fluidità, eterogeneità e ibridità: un mondo sociale di identità multiple. Ora Abiy tira fuori il medemer (mischiarsi, fare sinergia) «trovare una sintesi tra punti di vista diversi e persino contrari» che però, allo stato dei fatti, rischia di farlo diventare un riformista che promuove il cambiamento più con la forza delle armi che della democrazia.
Nel suo libro intitolato appunto Medemer Abiy condanna i «ladri che indossano cravatte negli uffici governativi» e usano le risorse pubbliche per i loro benefici personali e accettano tangenti. Sostiene che la democrazia liberale è basata sulla cultura liberale europea e non si adatta all’Etiopia che non è in grado nemmeno di nutrirsi, per questo l’Etiopia ha bisogno di una filosofia indipendente ed etiope: il medemer. Sostiene che introdurre il liberalismo in un Paese con una popolazione analfabeta e affamata è sbagliato. Spiega, poi, che l’assenza dello sviluppo è causata dalla mancanza di legittimità dell’Etiopia come Stato. A suo avviso chi ha governato l’Etiopia ha passato più tempo a cercare di legittimare l’Etiopia come Stato più che a soddisfare i bisogni della popolazione. Ma questa incapacità di soddisfare i bisogni ha creato malcontento che a sua volta ha portato a rivolte e alla perdita della legittimità ricercata: l’esistenza dello Stato etiope è stata garantita solo attraverso l’oppressione.
Le istituzioni sono di per sé carne senza anima, hanno bisogno di una cultura democratica altrimenti possono essere esse stesse strumenti di oppressione. Per Abiy, oltre le debolezze citate, l’instabilità dell’Etiopia dipende dall’assenza dei valori di libertà e fraternità. E poi prosegue sostenendo che la rappresentanza etnica è uno dei problemi che di fatto indebolisce una leadership basata sul merito. Sarà necessario molto tempo, molta cura e un’intensa attenzione da parte della comunità internazionale che dovrà necessariamente scegliere per quale Etiopia cooperare: ondeggiare non è possibile.
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