«Hai fatto bene Elnaz! Sei la nostra eroina!» Così un migliaio di amici e parenti ha accolto l’arrampicatrice Elnaz Rekabi al suo arrivo all’aeroporto di Teheran alle 4 del mattino. In segno di solidarietà con le proteste innescate dalla morte della ventiduenne curda Mahsa Amini, ha gareggiato a Seul senza velo, obbligatorio per le atlete iraniane in patria e all’estero.

La International Federation of Sport Climbing (IFSC) ha recuperato il video della sua arrampicata: inizia la competizione con una bandana per poi indossare, nell’ultima parte della scalata su una parete impervia, soltanto una fascia per capelli. Amici e parenti hanno temuto per la sua vita: è partita da Seul con 48 ore di anticipo, ed erano giorni che non era raggiungibile al telefono. Tra le ammiratrici presenti agli arrivi, tante avevano il cappellino con la visiera al posto del foulard.

PER SALVARE LA PELLE, propria e del marito rimasto a Teheran, l’atleta ha provato a scusarsi dapprima su Instagram: se è stata vista senza velo, è soltanto perché le sarebbe «scivolato accidentalmente» durante la performance sportiva. In aeroporto, davanti alle telecamere, ha aggiunto: «Sono stata chiamata per gareggiare quando non me l’aspettavo, mi sono ritrovata impigliata nella mia attrezzatura tecnica. Per questo non ho fatto attenzione al velo che avrei dovuto indossare».

Non le ha creduto nessuno, e infatti è stata convocata dal ministro dello Sport: ci sarà un’inchiesta. Scusandosi, Elnaz ha cercato di usare a proprio vantaggio la dissimulazione tipica dello sciismo: da sempre minoritari, anche nel mondo islamico, gli sciiti hanno il dovere di mentire laddove può salvare la vita a loro stessi e al loro entourage. Se l’atleta rilascia dichiarazioni del tipo «va tutto bene» è perché, fin dai tempo dello scià, le autorità iraniane esercitano pressione affinché si salvino le apparenze.

INTANTO, nel disperato tentativo di contrastare le immagini di donne svelate, il leader supremo ayatollah Khamenei si è fatto fotografare con una classe di studentesse universitarie velate da capo a piedi con il chador e… con la mascherina utilizzata durante pandemia. Un’immagine bizzarra, perché in aula le ragazze indossano di solito pantaloni, spolverino e maghnae (il velo che assomiglia a quello delle suore, con la cucitura per non farlo scivolare).

A negare la realtà, e quindi anche il dissenso, è stato il deputato di Ardebil, la città azerbaigiana dove la sedicenne Esra Panahi era stata uccisa a scuola il 12 ottobre. «Che *** me ne frega se Esra Panahi s’è presa una pillola ed è morta!».

Ha esordito così l’hojatoleslam Kazem Musavi, insinuando che la sedicenne non andasse «nemmeno a lezione» e si sia «suicidata». Anche lei, come tante altre vittime della repressione di regime. Ha poi aggiunto che coloro che in queste cinque settimane sono scesi in strada nelle province dell’Azerbaigian non sono «gente del posto».

IL DEPUTATO Musavi è un membro del clero sciita con il rango di hojatoleslam, e quindi uno scalino sotto quello di ayatollah. Al tempo dello scià, erano stati alcuni membri del clero sciita – tra-cui l’ayatollah Khomeini – a mettersi dalla parte del popolo che protestava contro un sistema politico che non li rappresentava.

Ora, mentre l’ayatollah Khamenei dà ordine di reprimere il dissenso, il clero sciita nella città santa di Qum preferisce astenersi dal dare opinioni sulla politica, anche perché il dissenso viene punito con severità.

Nel caso dell’assassinio di Mahsa Amini, a rompere il silenzio sono stati soltanto il Grande ayatollah Asadollah Bayat Zanjani e il Grande Ayatollah Mohammad Javad Alavi Boroujerdi. In pubblico, hanno espresso rammarico per la morte di Amini e hanno osato criticare il comportamento di alcune forze di sicurezza. Zanjani e Boroujerdi sono figure teologiche di rilievo: continuano a pubblicare testi religiosi e non accettano di rientrare nell’elenco degli ayatollah promossi d’ufficio, in cambio di lealtà al regime.

***

App, droni e telecamere per spiare la rivolta

Teheran potrebbe vietare la vendita dei Vpn, le reti virtuali private usate nel paese per bypassare i blocchi a internet. Lo ha prospettato ieri il ministro delle telecomunicazioni Issa Zarepour. Sul tavolo una legge che prevede il carcere nel caso di violazioni.

Ma la tecnologia può essere «amica»: pochi giorni fa il Wall Street Journal ha ricostruito alcune tecniche usate dalle forze di sicurezza iraniane nelle piazze: accanto ai classici agenti in borghese, Teheran ricorre a sorveglianza digitale tramite telecamere apposte nelle università e nelle piazze, app di delivery e droni per individuare gli attivisti che, per evitare arresti di massa, stanno preferendo azioni brevi di piccoli gruppi alle mobilitazioni molto partecipate. (red. esteri)