Liberato dalla letterarietà della forma del romanzo epistolare, Tutto quello che non abbiamo visto (Einaudi, pp. 184, euro 18) di Tommaso Giartosio è una riflessione sul viaggio oltre che un vero e proprio viaggio in Eritrea compiuto dall’autore nel 2019. Ovvero prima che il mondo venisse blindato e rinchiuso in un segmento ipotetico quanto capace di liberare sensibilità e visioni possibili, per quanto in molti casi naufragate al tanto agognato ritorno alla cosiddetta «normalità». Ed è proprio all’interno di questa doppia tensione che agiscono le pagine epistolari del testo di Giartosio, tra pratica del viaggio e sua visione.

Uno sguardo che però non è mai mera idealizzazione, bensì apertura a un confronto sia culturale che temporale. Una lettura dei luoghi e delle persone quali elementi portanti, ma pur sempre mutabili in una progressione la cui logica resta per lo più oscura e appartenente a quello che si tende a definire spirito del luogo. Ed è leggibile come un’indagine sullo spirito del luogo o meglio dei luoghi il libro che Tommaso Giartosio porta a termine dopo il suo viaggio in Eritrea. Un viaggio di scoperta dell’esistente e dell’immutabile, ma anche della loro ostinata fragilità.

È DUNQUE L’EQUILIBRIO il senso della ricerca, la capacità di mischiare gli elementi dello sguardo per restituire chiarezza ai propri occhi e del proprio interlocutore, il fotografo Antonio Politano. E si capisce meglio il senso della scelta del romanzo epistolare, in quanto proprio questa forma permette di offrire al lettore uno spazio maggiore di visione tra l’interpretazione e il luogo stesso. Ed è su questo terreno che si gioca il viaggio e parallelamente la scrittura di Giartosio esplicitando il carattere intimo del suo viaggiare, ma sempre in chiave collettiva, pubblica. Quasi per l’appunto una lettera aperta alla necessità di scoprire e di meravigliarsi.

Tutto quello che non abbiamo visto non a caso vive di immagini continue che sono date però come vivide impressioni i cui contorni possono essere confusi o facilmente interpretabili in modi vari e opposti. Si tratta dell’assoluta unicità dell’Eritrea, ma anche della presenza dura e pregnante di un dominio italiano (e non solo) che ha lasciato la sua traccia come a certificare la storia e la sua violenza. Eppure proprio il gioco diviene l’elemento di riscatto, lo strumento con cui utilizzare i segni di una violenza passata per dare forma a un divertimento improvviso e stupefacente.

UN VIAGGIO dunque a ritroso, non tanto però nella storia, ma nella vita intima e nelle sue tracce che appaiono così in forma simbolica e struggente. Perché proprio in quella storia spesso dolente e violenta che però appartiene a tutti, si rivela la forza di permanenza di un insieme collettivo che restituisce il senso di un’appartenenza e di una diversità. Elementi da coniugare e non da rivendicare, anche nell’istinto inconscio di differenza che scivola facilmente nei gesti come nelle parole. Giartosio ha scritto di un viaggio in Eritrea per raccontare la fatica dell’invisibile, ma anche la meraviglia della sua verità.