È una lotta che si è riproposta in tutte le fasi della storia del Brasile, dall’antico sistema coloniale a un’indipendenza solo formale fino all’attuale capitalismo dipendente: quella tra i grandi produttori agricoli (oggi rafforzati dall’alleanza con l’agrobusiness e il potere finanziario) e il movimento dei contadini.

Ed è a uno dei protagonisti indiscussi di questa lotta che è dedicato il libro del sociologo Aldo Marchetti: Il movimento brasiliano Sem terra. Una lunga lotta contadina contro il latifondo e le multinazionali (Carocci, pp. 286, euro 28), frutto di un lavoro di ricerca svolto in tredici dei suoi accampamenti e insediamenti e in quattro stati del Sud e del Nordest.

È UNA FAMA, quella del Movimento dei senza terra (Mst) – la più rappresentativa e autorevole forza popolare del Brasile se non dell’intera America latina – costruita sulla base di epiche occupazioni di terra e di marce di centinaia di chilometri, di un’ostinata resistenza a persecuzioni, stragi e campagne di discredito, di una lotta indomita capace di porsi, insieme all’obiettivo centrale della riforma agraria, i più ampi orizzonti politici: «costruire una società senza sfruttatori e sfruttati; garantire che la terra sia un bene di tutti e resti al servizio della società; assicurare a tutti il lavoro assieme a una giusta retribuzione», ma anche «combattere tutte le forme di discriminazione e favorire la partecipazione egualitaria alla vita sociale di donne, uomini, giovani, anziani e bambini».

Ma il successo del movimento, che, nato nel 1984, organizza oggi più di 600mila famiglie di piccoli contadini, si spiega anche con altri tratti di grande originalità: «la flessibilità e il decentramento» – il potere decisionale è «diffuso, sia ai livelli più alti che in quelli intermedi» -; la capacità di inclusione – le porte sono aperte a tutti i lavoratori senza distinzione di etnia, credo religioso, fede politica, differenza di età o identità di genere -; un programma mirato non solo al miglioramento delle condizioni di lavoro dei contadini ma anche alla loro elevazione morale e culturale.

E, ancora, una pedagogia in cui trovano spazio tanto la teologia della liberazione quanto il socialismo e la cultura popolare; l’importanza attribuita al calore dei sogni (che è, anche, colore di bandiere, ritmo di canti, forza di gesti, quell’insieme di manifestazioni e rituali definito con il termine «mistica»). Senza dimenticare la partecipazione determinante delle donne alle lotte e all’organizzazione del lavoro e della produzione, a cui Marchetti dedica non a caso un ampio spazio, come pure l’opzione per l’agroecologia, legata alla lotta per conservare i saperi tradizionali e a una cultura ecologista «in gran parte veicolata proprio dalle donne».

È QUESTO MOVIMENTO, di cui il volume ricostruisce la storia e la vita interna (in particolare attraverso tre casi di studio), ad aver assunto il ruolo di guida «di un ciclo ininterrotto di mobilitazioni e di lotte la cui asprezza non è mai venuta meno». Una «guerra interna lunga come la sua storia» – prima contro i popoli indigeni, poi contro gli schiavi africani in fuga dalle piantagioni, in seguito contro il banditismo sociale e, infine, contro i movimenti contadini -, scatenata da quel blocco dominante della borghesia agraria che, «nonostante tutti i cambiamenti», non ha mai «perso in modo rilevante quel peso che ha sempre avuto sulla bilancia dei poteri».

Neanche sotto i governi di Lula e di Dilma Rousseff, segnati da un «neoliberismo dal volto umano» centrato molto più sull’agrobusiness che sull’agricoltura familiare.