Energia speculativa (di guerra)
Il 21 marzo è arrivata la conversione in legge del “decreto Ucraina”, con il contestatissimo sostegno militare al governo di Kiev. Ma il provvedimento contiene anche misure per qualcosa che probabilmente preoccupa molto di più famiglie e imprese: la crescita dei prezzi di bollette e carburante.
Tutte le stime vedono una crescita dell’inflazione in molti paesi. Questa è calcolata con la media dei prezzi di tutti i beni, ma nella rilevazione ISTAT si vede che cosa cresca di più, e cioè abitazione, acqua, elettricità e combustibili. Si tratta dunque di un tipo di inflazione che colpisce in modo particolare le classi popolari, essendo su beni necessari cui non si può rinunciare, o la cui moderazione è molto difficile.
Se la guerra in Ucraina è un elemento importante, va detto che l’aumento dei prezzi si era già manifestato nel 2021; tanto che il Governo aveva frettolosamente approvato il D. L. 130/21 entrato in vigore il 28 settembre per abbassare la tassazione sulle bollette del gas e dell’energia elettrica.
Oltre al fattore di impoverimento collettivo che tali maggiorazioni comportano – che colpiranno in maniera sproporzionata le classi popolari – va messo in conto il danno inflitto dall’economia nel suo complesso, visto l’aumento dei costi di produzione. Se una stima di Confcooperative-Censis vede a rischio 1,4 milioni di lavoratori, le pagine dei giornali locali di tutta la penisola si riempiono di nomi di imprese che chiudono o sospendono la produzione.
Alla base degli aumenti stanno le materie prime del gas (per elettricità e riscaldamento) e petrolio (per i carburanti). Per entrambi la filiera che va dal produttore (cioè da chi li estrae) al consumatore di base vede molteplici passaggi, con differenti margini di profitto. Ma il tratto più impressionante, come hanno insegnato gli eventi di oltre dieci anni fa, è che si tratta di commodities fortemente finanziarizzate.
Il prezzo del gas viene determinato, sostanzialmente, sul mercato di Amsterdam (TTF), in cui si registra una massiccia presenza di agenti di profilo eminentemente speculativo che è maggiori di quelli che hanno un interesse genuinamente commerciale. A ciò va aggiunto che i decisori europei hanno insistito presso le controparti russe (cioè Gazprom) per sostituire contratti di lungo periodo (detti “take or pay oil link” ) con altri di breve periodo (detti “gas to gas”), il che ha dato un margine maggiore alle manipolazioni finanziarie tendenti ad amplificare le oscillazioni di prezzo.
Per quanto riguarda il petrolio, il prezzo di riferimento (chiamato “Brent”) viene fissato presso l’Intercontinental Exchange di Atlanta – una borsa statunitense specializzata in derivati sviluppatasi grazie al trading elettronico sulle materie prime. Il prezzo del carburante alla pompa (a parte la tassazione) dipende tuttavia da un prezzo di riferimento stabilito da S&P Global Commodity Insights, una piattaforma/azienda situata a Londra, presso cui operano i maggiori fondi speculativi al mondo.
In questo contesto non solo il mitico equilibrio dei mercati non è la condizione cui si tende, ma assomiglia ad una serie di piroette su un tappeto di bucce di banana; fra queste si possono citare una ripresa economica cui corrispondono difficoltà logistiche e di approvvigionamento, l’improvvida idea dei dirigenti Ue di inserire ulteriore dose di meccanismi mercatisti e le tensioni crescenti con la Russia che è il principale fornitore di gas e di molto petrolio al Vecchio Continente. I pallidi provvedimenti del governo Draghi potranno tamponare la situazione ma non potranno sanare una dimensione così strutturale di assuefazione alle logiche finanziarie, pronta a puntare il coltello alla gola delle classi popolari.
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