Il tempo stringe, la fine di agosto è dietro l’angolo, la Commissione vorrebbe chiudere in anticipo rispetto a quella data ultimativa ma la trattativa sulla «rimodulazione» del Pnrr è ferma ai blocchi di partenza. Manca la proposta italiana, quella che Bruxelles dovrebbe accogliere, senza la quale non c’è nulla su cui trattare. Colloqui, conciliaboli, ballon d’essai, certo: ma nulla di più. Il sogno di Fitto e della premier però si va delineando. Il ministro Giorgetti ieri ha riassunto la situazione, lasciando filtrare tra le righe l’obiettivo di fondo: «Non voglio rinunciare proprio a niente se i fondi del Pnrr sono convenienti. Dobbiamo valutare quali sono gli investimenti più produttivi. Anche la Commissione Ue ha interesse che l’Italia investa». Il collega Urso, in un’intervista, era stato più esplicito: «Il confronto con la Commissione è tutto sullo spostare i soldi puntando sulla sostenibilità energetica, la transizione 5.0, la tecnologia verde e digitale».

Qualche dettaglio in più si capirà dalla versione definitiva della Relazione semestrale sullo stato del Pnrr che ieri sera non era ancora stata consegnata al Parlamento, ma dovrebbe essere questione di ore, e che indica 120 progetti problematici, sia pure a diversi livelli.

Stando a quel che sembra di capire del progetto di Fitto, si tratterebbe di una revisione anche più drastica di quella «rimodulazione a 360 gradi» sin qui perseguita e che già somigliava come una goccia d’acqua a una compiuta riscrittura del Pnrr. Il peso dello sviluppo energetico lieviterebbe tra le voci di spesa del Piano ben oltre i 2,7 miliardi stanziati per il RePowerEu, il fondo per gli interventi sull’energia che si dovrebbe aggiungere al Pnrr. Sostituirebbe in parte rilevante gli interventi sulle infrastrutture, quelli che procedono con maggior difficoltà. Ieri il ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin ha aperto il festival di Green&Blue fissando come obiettivo per il 2030 il rovesciamento dell’attuale rapporto tra l’energia prodotta dai fossili, oggi i due terzi del consumo, e quella derivata dalle rinnovabili. Magari è solo una coincidenza ma di quelle provvidenziali. Un obiettivo del genere richiede infatti una serie di massicci investimenti nei prossimi anni.

L’idea di spostare i fondi del Pnrr che non si riescono a spendere sul RePowerUe, perché di questo in soldoni si tratta, comporta per il governo un vantaggio in più: a gestire una parte sostanziale delle risorse del Piano sarebbero le grandi partecipate di Stato: Eni, Enel, Snam e Terna. La tentazione di affidare la realizzazione del Pnrr alle partecipate, più agili ed efficienti, si era già affacciata qualche mese fa, frenata però da una considerazione terragna accampata dai vertici di quelle aziende: l’impossibilità di svolgere regolarmente i propri compiti aggiungendo il carico della gestione delle risorse del Recovery. Ma se quelle risorse riguardassero la loro sfera di competenza, le difficoltà delle partecipate sarebbero molto meno proibitive.

La strategia del governo non è insensata, tanto più tenendo conto dell’urgenza e dei ritardi della transizione ecologica. Al momento però il pollice della Commissione è all’ingiù. La portavoce numero uno, Veerle Nuyts, è stata ieri tassativa. Prima di tutto ha ricordato che l’Italia non ha ancora presentato il suo Piano per RePowerEu, poi ha sottolineato che il Piano energetico è aggiuntivo. Insomma, non si possono spostare soldi da un capitolo all’altro come nel sogno, o forse nel miraggio, di Roma: «Si tratta solo di integrare una dimensione tematica supplementare». Sembra un no definitivo ma sul tema Pnrr la Commissione ha già più volte ammorbidito posizioni che sembravano rigidissime e Giorgetti non parla a casaccio quando ricorda che la Ue ha tutto l’interesse a evitare che il Pnrr fallisca in Italia.