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Emma, carcere, amore e libertà

Emma, carcere, amore e libertàElisabetta Magnani nello spettacolo "Ad ogni passo" – Antonio Grella

Storie A Regina Coeli la pièce teatrale «Ad ogni passo» tratto dall’epistolario tra i coniugi Emma e Giulio Turchi, comunisti perseguitati dal regime fascista che li tenne separati per 17 anni

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 26 novembre 2022

Alla prima lettera dal carcere Giulio le scrisse: «Coraggio Emma, due o ventuno fa lo stesso!». Arrestato a Roma l’8 aprile 1927 con l’accusa di aver continuato a far parte di un partito (comunista) disciolto per ordine della Pubblica autorità, Giulio Turchi aveva 26 anni quando, nel 1928, venne condannato a ventun anni di reclusione dal Tribunale speciale fascista. Si erano sposati solo il 2 maggio 1926, lui e Emma, giovanissima sarta conosciuta nella comune città natale, Firenze, appena cinque mesi prima del matrimonio. Ma il loro amore sarebbe durato tutta la vita, malgrado il carcere fascista li abbia tenuti separati per diciassette lunghissimi anni. Separati ma non distanti, in continuo confronto e conforto attraverso lettere, cartoline e telegrammi.

Un epistolario che Giulio Turchi – che a Firenze si era specializzato operaio metallurgico ma era dovuto scappare a Roma per sottrarsi alla persecuzione – raccolse poi in un libro: «Emma. Diario d’amore di un comunista al confino» (Donzelli editore). Lettere che ispirarono anche Emma Forconi Turchi quando scrisse «La Felicità è la lotta» (Marsilio editore). Ed è attraverso quelle pagine appassionate che si capisce che «per Giulio era importante, non tanto essere marito o perfino padre, ma amante e amico di Emma, e continuare la ricerca della loro affinità e dei loro valori comuni. Una storia d’amore in cui non si dubita mai l’uno dell’altra».

A NOTARE IL ROMANTICO particolare, indicando – nella Giornata internazionale dedicata alla lotta contro la violenza sulle donne – quello tra i due partigiani come «un bellissimo esempio di sano rapporto di coppia» che «ci insegna più in generale a non dubitare mai degli altri», è la direzione del carcere romano di Regina Coeli (tutta al femminile: la direttrice Claudia Clementi, che ha avuto «una storia familiare simile», e la vice Alessandra Bormioli), dove ieri è andata in scena «Ad ogni passo», la pièce teatrale sceneggiata di Gioia Turchi Carrara, l’unica figlia della coppia concepita nel 1945 quando finalmente i due amanti si rincontrarono liberi. Gioia Turchi ieri ha messo piede per la prima volta nel carcere dove i suoi genitori sono stati detenuti (la madre fu prigioniera alle «Mantellate»).

E si è emozionata: «Mi commuovo perché ci sono questi ragazzi», ha detto rivolgendosi alla decina di detenuti a cui è stato concesso di assistere al toccante monologo interpretato dalla brava Elisabetta Magnani e diretto da Francesco Suriano. «Mio padre diceva che il nemico principale in carcere è la noia e a mia madre, quando l’arrestarono, le raccomandò di non annoiarsi mai. Questo discorso sulla noia ha pervaso le loro lettere per 17 anni. Per sfuggire alla noia – conclude Gioia Turchi Carrara – bisogna però innanzitutto portare rispetto per se stessi». Una raccomandazione molto importante per chi oggi vive la reclusione e che fu alla base della resilienza dei perseguitati politici del fascismo.

LA DATA PER QUESTO evento non è stata scelta a caso, perché il 25 novembre 1926 venne istituito, con una delle cosiddette “leggi fascistissime”, il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, e venne reintrodotta la pena di morte. Lo ha ricordato Patrizio Gonnella che con Susanna Marietti e l’associazione Antigone ha organizzato l’evento, seguito nella sala teatro di Regina Coeli anche da Michele De Palma della Fiom, Daniela Barbaresi della direzione Cgil e dalla consigliera dem di Roma Capitale, Erica Battaglia.

Perché il fiorentino Giulio Turchi, oltre ad essere stato un militante del Partito socialista, dirigente del Partito comunista, segretario della sezione di Impruneta a 19 anni, fu anche un leader sindacale. E dopo il 25 aprile del 1945 fece anche parte del Comitato di liberazione nazionale di Roma. Fu eletto alla Camera dei deputati per la prima volta nel 1948 e in seguito rivestì anche la carica di questore.
MA COME PRIGIONIERO politico fu rinchiuso in una cella fino al 1937, trasferito da un carcere all’altro: da Roma a Oneglia, e poi Fossombrone, Padova, Castelfranco Emilia, Civitavecchia… Emma lo seguiva ovunque, in attesa di un colloquio. I colloqui tra i due erano concessi soprattutto «ai ferri», come si usava dire: «I detenuti erano separati dai familiari da un corridoio scuro e opprimente, largo circa un metro, che aveva ai suoi due lati tante finestrelle, protette da una robusta inferriata. Che si affrontava a due a due. Le voci si confondevano in mezzo al brusio».

Poco dopo però «fu Tatiana ad insegnarmi il metodo “della bustarella”, Tatiana Schucht la cognata di Gramsci, che di carceri era più pratica di me: quando il Tribunale mi rilasciava il biglietto del colloquio ai ferri da presentare al cavaliere dalla papalina all’ingresso, dovevo mettere sotto di esso una busta da 20 o 25 lire: lui mi avrebbe apposto in un angolo la scritta “speciale”. Da allora quasi tutti i colloqui furono a viso».
«IO NON LA RIVOGLIO la mia libertà – protesta un giorno Emma in una lettera – non voglio nessun annullamento di matrimonio… Lo so che sono giovane ma posso aspettare, ti ringrazio per la tua offerta e per tua la comprensione, ma anch’io ho riflettuto e valutato, aspetterò… Anche vent’anni. Senza chiedere consiglio a nessuno – racconta lei stessa nel libro – raccolsi le mie cose, salutai gli amici e partii, il mio capitale consisteva in 450 lire. Direzione Genova. Giulio infatti era stato assegnato alla Casa Penale di Oneglia, cittadina in provincia di Imperia». La giovane affitta una camera e ricomincia a costruirsi una clientela per i suoi lavori di sartoria. Ma, ogni volta che il suo uomo viene repentinamente trasferito, «tutto quello che avevo costruito andava distrutto».

NEL 1937, L’ANNO del condono, «Giulio ne ricevette tre e la sua pena fu ridotta a 10 anni, che aveva appena finito di scontare…». Eppure, poiché venne etichettato come «un anti-italiano pericoloso per la società», Giulio fu inviato al confino alle isole Tremiti. Da lì scrive: «Noi non dobbiamo essere marito e moglie, dobbiamo essere amici e amanti; fiducia incondizionata. Se il nostro amore sorge su questa base noi saremo non gli amanti di un’ora o di un giorno ma gli amanti di sempre, finché saremo amici…». E lei: «Per dieci anni avevo sognato di dormire insieme a lui…».

Dopo una rivolta sollevata dai prigionieri e sedata con la violenza, Turchi lascia le Tremiti e torna in carcere a Lucera (Foggia). «Furono gli anni più duri: undici mesi senza vedere Emma», racconterà poi. E ancora: «Dopo Lucera fui mandato di nuovo al confino a Ponza, e da Ponza a Ventotene dove erano confinati i più importanti esponenti dei partiti comunista, socialista e Giustizia e libertà, tra cui Secchia, Scoccimarro, Terracini, Camilla Ravera, Di Vittorio, Spinelli, Rossi… e poi c’erano gli albanesi, rastrellati dalla polizia fascista dopo l’occupazione militare del loro Paese». In cella si discuteva di come aiutare gli albanesi ad organizzare la rivolta.

NELL’ESTATE DEL 1941 Giulio Turchi riceve una licenza di qualche giorno per andare al capezzale di suo fratello gravemente malato e per incontrare di nuovo sua madre dopo quindici anni. Una mente sadica stabilisce però che proprio in quell’occasione, non appena riabbracciatisi, toccherà questa volta ad Emma essere arrestata e rinchiusa a sua volta nel carcere femminile delle «Mantellate», a Trastevere, accusata di cospirazione. «Cara Emma, sia che ci riuniremo fra un mese che fra dieci anni della mia condotta non dovrai mai dubitare», le scrive lui. Per fortuna lei in quel carcere vi rimarrà “solo” cinque mesi.
Racconta Emma: «Mussolini era caduto ma Giulio e gli altri comunisti erano ancora trattenuti al confino. Nella notte fra il 17 e il 18 agosto, una telefonata di Sandro Pertini mi informò che i compagni erano stati liberati».

GIULIO SI PROCURÒ un documento falso che gli permetteva di muoversi dentro «Roma città aperta». Erano passati diciotto anni da quando era stato arrestato, Roma era stata liberata ma i due amanti e amici non potevano tornare ancora insieme. Andarono a vivere in due case diverse. «Giulio aveva studiato con precisione il modo in cui avvenivano le retate dei tedeschi e dei repubblichini, sapeva quando e dove sarebbero avvenute. Bisognava stare molto attenti perché ci si spostava per la città sempre con le tasche piene di documenti». Erano i giorni dell’attentato partigiano di via Rasella e della strage delle Fosse Ardeatine. Giorni di paura, di angoscia. E di coraggio. Ma infine, «la sera del 4 giugno, verso l’imbrunire, apparvero i primi carri armati americani…». Emma aspettava un figlio. Era una figlia, e la chiamò Gioia.

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