Sulla strada tra Foča e Sarajevo, a bordo del minuscolo pulmino che oggi trasferisce i passeggeri dal confine serbo alla Bosnia – un percorso obbligato e interrotto da lunghi controlli notturni alla frontiera – può capitare che il conducente debba fermarsi all’improvviso e accostare lungo la via non asfaltata che si snoda tra le montagne. La pioggia e il vento fanno ruzzolare sulla carreggiata grandi pietre che intralciano il cammino dei mezzi di trasporto. L’autista tira il freno di posizione, scende dal suo posto, e anche se fuori si gela, e piove, si mette a spostare le pietre a mani nude, senza chiedere l’aiuto di nessuno. Guardando dai finestrini appannati sembra di essere come sospesi in aria, e quando il pulmino riparte, la ghiaia sotto la gomma degli pneumatici emette un suono inconfondibile, e per qualche secondo si produce nel viaggiatore l’effetto straniante di calpestare un sentiero che si dipana nel vuoto. (L’autista si premierà poi con una sigaretta, accesa nel pulmino già saturo di anidride carbonica, i finestrini chiusi).

Non sappiamo se Emir Kusturica conosca il verso di The Gravel Walks che il poeta irlandese Seamus Heaney, dopo averlo composto, volle come epitaffio per la propria tomba («Walk on air against your better judgement»). Di certo le bellissime immagini poetiche che attraversano L’angelo ribelle (tradotto da Alice Parmeggiani per La nave di Teseo, pp. 171, € 20,00) – un racconto che nel suo sviluppo disordinato e indifferente alla consequenzialità della narrazione rimanda vagamente alla ben più vivida opera cinematografica del regista di Underground e Gatto nero, gatto bianco – si muovono con coerenza verso l’aspirazione lirica a «ribaltare Newton», come recita il titolo di uno dei capitoli iniziali.  La prima di tali immagini è un ricordo d’infanzia del bambino di Sarajevo: nei cieli plumbei della capitale bosniaca, negli anni sessanta, i bambini lanciano i coperchi delle pentole, e quelli più destri cercano di produrre un effetto che sia in grado di far tornare il disco volante verso di loro. Emir comincia la sua avventura dello spirito lanciando un «coperchio azzurro» che indietro non tornerà mai più: rimarrà sospeso per sempre in aria, perduto chissà dove. Poi lo si ritroverà stabilmente sopra la sua testa, trasformato in voce della coscienza, consigliera spiritosa e invisibile agli altri, allegoria del «vedere a occhi chiusi». La seconda immagine è quella di un falco salvifico, che appare come spirito-guida e, volteggiando sopra il fortunato, lo libera dalle sue disgrazie. La terza immagine, infine, è quella di uno scrittore in bilico sul vuoto, impegnato nel numero dell’equilibrista, sul filo sospeso. A differenza del coperchio azzurro, vero e proprio personaggio del «romanzo» di Kusturica, questo scrittore ha un nome e un cognome: Peter Handke. E il filo sospeso passa sopra la Drina, unendo le due sponde del fiume.

Quest’ultima è l’immagine cruciale: Kusturica trasforma il «suo» poeta, e amico, il premio Nobel austriaco, in un personaggio del libro. «L’angelo ribelle» del titolo è lui (la definizione è presa in prestito da Ivo Andrić, nume tutelare da Kusturica evocato più volte, e trasformato quasi in una entità astratta, un autore senza opera). Il grande merito di Handke, per Kusturica, è di «aver preso le parti del popolo serbo» durante le guerre balcaniche degli anni Novanta, ciò che comunque, anche secondo il regista, non si direbbe sopravanzare per importanza i suoi conseguimenti artistici.

I primi capitoli si accordano al registro enfatico del titolo, e sono punteggiati di considerazioni apocalittiche sul cristianesimo, sui destini del mondo e segnatamente su quelli dell’odiato Occidente a guida statunitense, tanto da ingenerare il sospetto che l’autore li abbia concepiti come una specie di barriera all’ingresso per selezionare accuratamente i propri lettori «stranieri». In tempi di pesante e acritica omologazione atlantista, qualche lettore potrebbe forse avere più voglia di perdonare gli eccessi del non-allineato narratore, in cambio di una ventata di anti-americanismo vieux jeu, tutt’altro che intempestiva. Chi decidesse di superare questa stretta soglia, si troverebbe davanti al racconto di alcuni momenti significativi della cerimonia di consegna del premio Nobel a Handke, a Stoccolma, dove Kusturica e sua moglie figurano tra gli invitati personali dello scrittore (nell’elenco «famiglia»). Alcuni brevi dialoghi con il regista regalano un fugace ma riconoscibile ritratto dell’autore del Canto alla durata, pensoso e rapito dalla neve svedese.

Impietosa, naturalmente, è la descrizione degli accademici scandinavi. Il Segretario Permanente prova a convincere il Laureato, fino al giorno prima della cerimonia, a fare pubblica ammenda circa le sue dichiarazioni, ritenute ambigue, sull’eccidio di Srebrenica (Handke assicura/minaccia di essere pronto a tornare nella sua provincia francese in qualunque momento, se l’Accademia non è convinta di lui, e confida all’amico Emir: «io non voglio più avere una opinione»). Una funzionaria dell’Accademia, poi, a precisa domanda di Kusturica – il quale palesemente non stava più nella pelle all’idea di poterlo raccontare in pubblico –, ammette di non aver mai sentito parlare del grande cineasta e suo connazionale Victor Sjöström (e Wim Wenders, anche lui tra gli invitati, la rende edotta leggendole pazientemente la pagina di Wikipedia dedicata a Sjöström). Completa il libro un racconto-nel-racconto, un episodio apparentemente più leggero, legato a un dipinto del quale Kusturica non riesce a liberarsi, per motivi magici e sentimentali. Le ultime battute sono per lo scrittore-equilibrista, che a un certo punto quasi sembra perdere stabilità, e infine si mette di nuovo a sedere sul filo. Sotto di lui vola un falco, che indica il cammino salvifico volteggiando, scrive Kusturica, verso «la sponda sinistra della Drina». Verso Sarajevo, dunque, città natale del regista jugoslavo, oggi convintamente serbo. Al lettore il compito di attribuire un significato al volo di quel falco.