Émile Zola, un emblema rovesciato degli odierni imperativi
Vignetta pubblicata su «L'Aurore» il 13/1/1898 che illustra l'opposizione tra i difensori di Dreyfus, tra cui Émile Zola, e i militari francesi anti-dreyfusardi (Rue des Archives/Tal)
Alias Domenica

Émile Zola, un emblema rovesciato degli odierni imperativi

«L'aurore», 13 gennaio 1898 Nell’intervenire pubblicamente sull’Affaire Dreyfus con il celebre «J’Accuse...!», Émile Zola avanzava per accreditarsi il capitale simbolico della propria opera, rivendicando così, più che l’«impegno», l’immanenza del campo letterario

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 5 giugno 2022

L’invenzione degli intellettuali è un evento relativamente recente e viene fatto risalire ai savant d’epoca illuminista e alla loro funzione tanto di oppositori al dispotismo dell’ancien régime quanto di legislatori, come ebbe a dire Zygmunt Bauman, di un pensiero emancipato dal dogmatismo e, più in generale, dal principio di autorità. Un frangente capitale del rapporto fra intellettuali e potere concerne l’Affaire Dreyfus e l’esplosione in Francia di una guerra civile (per lo più, ma non esclusivamente, in effigie) tra quanti nell’ufficiale ebreo ravvisavano un traditore con la prova patente di un contagio (le sale méthèque, il lurido bastardo che ammorba le terroir, la souche, il terreno, il ceppo etnico, per dirla con i termini dell’antidreyfusardo Maurice Barrès) e quanti invece, per solito dei fieri repubblicani, vedevano in lui la vittima di un errore o piuttosto di una macchinazione politica.

È un caso dalla dinamica tutt’altro che limpida e lineare nella cui sterminata bibliografia (da ultimo si è aggiunto in Italia il ricchissimo dossier a firma di Piero Trellini, L’Affaire Tutti gli uomini del caso Dreyfus, Bompiani, pp. 1376, € 30,00) spicca quella che diviene una componente del caso medesimo, la lunga lettera di Émile Zola pubblicata su «L’Aurore» (tiratura eccezionale di 300.000 copie) il 13 gennaio 1898 e indirizzata al Presidente della Repubblica Félix Faure dove già nelle prime righe compare l’espressione topica cette abominable affaire Dreyfus, e nelle ultime risuona al ritmo di una solenne anafora, presto divenuta una celeberrima antonomasia, la denuncia di un clamoroso errore giudiziario e l’accusa ai vertici militari di averlo tollerato e insabbiato nonché di avere permesso (per cecità, fanatismo, malafede o mal risposto senso dell’onore militare) che si condannasse un innocente dopo averlo solennemente degradato ed esposto alla pubblica infamia.

Più citato che letto

Tante volte riproposto e talora in edizioni corrive, più citato e manipolato che non realmente conosciuto, il J’Accuse …! (Il Saggiatore, «La Cultura», pp. 219, € 19,00) torna nella eccellente curatela di Pierluigi Pellini, che ne firma anche la limpida e tutt’altro che facile versione, con un saggio di Daniele Giglioli sul ruolo e la funzione al presente degli intellettuali. In appendice alla lettera a «L’Aurore», Pellini annette la non meno bella e appassionata Dichiarazione alla Corte (è lì che il romanziere parla di una «verità in cammino») pronunciata da Zola il 21 febbraio dello stesso ’98 nel corso del processo, intentatogli dal Ministro della Guerra, che gli costa un anno di prigione e tremila franchi di ammenda.

Nel saggio introduttivo, Pellini smarca con dovizia di argomenti la posizione di Zola dagli effetti retroattivi che ne fanno sia un prosecutore di Victor Hugo sia un battistrada di Pasolini o comunque un classico campione dell’engagement, per sottolineare viceversa il fatto che davanti all’opinione pubblica, e poi alla Corte, Zola avanza per accreditarsi il capitale simbolico della sua opera pregressa e dunque rivendica la forza della scrittura in quanto tale o, con le parole di Pierre Bourdieu, dell’immanenza del campo letterario: è questa l’azione niente affatto organica ma intermittente e temporanea di un intellettuale che «offre come pegno di verità, l’opera e la vita stessa di uno scrittore pronto a pagare in prima persona e persino a farsi vittima sacrificale» scrive Pellini aggiungendo che «in nome dei valori universalmente umani l’intellettuale moderno supera, nei momenti di emergenza, le limitazioni imposte dallo specialismo positivista, dalla divisione del lavoro borghese».

È l’intellettuale «saggista» e perciò antipode dello «specialista» sul quale è tornato più volte Franco Fortini specie in Verifica dei poteri, che salvo errore non compare tra i riferimenti espliciti del curatore e di Daniele Giglioli, il quale in un saggio di divertita intelligenza (muove dall’analisi di un romanzo di Philip Roth, La macchia umana) tratta delle guerre civili simulate nella postmodernità, dove la prospettiva di Zola al cospetto dell’Affaire Dreyfus è esattamente rovesciata, perché l’accusa non è più effetto della critica ma la precede o la surroga in quanto si procede al ritmo di emozioni e valori etici richiamati in astratto, perciò nei termini di un aut-aut ricattatorio al tempo dei conflitti anti-identitari e tuttavia identitari a segno rovesciato: «Che tutto l’essere diventi dover essere! Se no denunciamo», scrive Giglioli definendo il maggioritario della corrente produzione affetto da «terrorismo morale».

I militanti della Virtù

Sono accenti che possono evocare un grande saggista drop out, Philippe Muray, che introducendo uno dei suoi libri maggiori, L’Impero del Bene (a cura di Francesca Lorandini, Mimesis 2017), cita il Mandeville della Favola delle api secondo cui è colpa degli scrittori se l’uomo sa così poco di sé stesso perché costoro «passano la maggior parte del tempo a spiegargli cosa dovrebbe essere, anziché provare a dirgli com’è». E prosegue, Muray, dicendosi atterrito dalla prospettiva di doversi trasformare in un militante della Virtù contro i retrogradi esponenti del Vizio. Non solo il senso di una verità in cammino ma il pensiero critico, l’autonomia del campo letterario rischiano, qui e ora, di passare per ingombranti anacronismi, lo stesso nome di Émile Zola pare essere distante anni luce.

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