L’odierno linguaggio di guerra in Italia trova, nel lessico rutilante del Gabriele D’Annunzio interventista, ispirazione per i propri neologismi. Nei radiosi aprile-maggio 1915, il poeta-soldato giustificava l’aggressione con un modello come quello putiniano.

L’Italia doveva strappare le terre dell’Adriatico orientale all’Austria perché il possesso di quel mare «ci appartiene per diritto divino e umano», in quanto «la vita civile delle due coste adriatiche stata sempre d’origine e d’essenza italiane» (aprile). Indipendentemente dall’avversario di turno, quell’insieme lessicale può essere riservato anche a coloro che si pongono al di fuori di logiche guerresche narrate attraverso assolutismi astratti e sacri principi. Costoro sono, nel migliore dei casi, ignavi, ma, «oggettivamente» in via di tradimento o già traditori: «manutengoli, mezzani, leccapiatti, leccazampe», allora delle cancellerie di Vienna, ora di quelle di Mosca. La fraseologia dannunziana combinava insieme l’aspetto trucido, prevalente, e quello dell’irrisione e del dileggio.

I contrari alla guerra erano contemporaneamente «un pugno di ruffiani» seguaci del neutralismo di Giolitti («vecchio boia labbrone») e dei socialisti. Nello stesso tempo i non interventisti, che volevano misurare «con la spanna del merciaio» imperativi assoluti misurabili solo «con la spada lunga», argomentavano ridicolmente «ciangottando da rivenduglioli», (maggio).

Così oggi i non interventisti, quelli che si dichiarano contro gli imperi sia del bene che del male, sono diventati i «no vax della geopolitica», tendenti «alla capziosità», tanto da utilizzare nel loro subdolo ciangottìo da rivenduglioli, persino l’innocente congiunzione avversativa «però», sotto accusa come strumento di giustificazione del nuovo zar: «Putin è un criminale, Biden però…» (A. Grasso, Corriere della Sera 10 aprile).

Non hanno torto i tardi epigoni della lunga tradizione dannunziana a diffidare, dal loro punto di vista, dell’uso frequente di questa avversativa da parte di coloro che si pongono il problema primario della comprensione dell’evento bellico in corso. Comprensione significa innanzitutto contestualizzazione dell’oggetto, cioè il suo inserimento in un sistema di relazioni che abbiano una propria coerenza (struttura) sia nello spazio che nel tempo. Il «però» esprime, dunque, una prima consapevolezza della necessità di porsi domande critiche di fronte a narrazioni unilineari e monodimensionali.

Quando si dice che l’aggressione della Russia all’Ucraina non è, come recita la propaganda di Putin, una «operazione» militare, ma una guerra orrenda, un crimine, però l’Irak…, non si intende giustificare un orrore con un altro orrore, bensì verificare il tipo di relazione esistente tra i due orrori.

L’invasione di uno stato sovrano da parte degli Stati Uniti e di alcuni paesi della Nato ha avuto come inseparabili compagni cumuli di menzogne e di cinismo. Indicibile lo spettacolo di un segretario di stato che agita una provetta davanti all’assemblea Onu come prova di legittimazione dell’aggressione. Intollerabile la risposta di Madeleine Albrigh alla domanda di un giornalista che gli chiedeva conto della morte di mezzo milione di bambini irakeni: «Una scelta molto difficile, ma il prezzo, pensiamo, il prezzo ne vale la pena».

In questo caso (se ne potrebbero aggiungere molti altri) il «però» apre la prospettiva d’indagine sulle logiche delle forme imperialismo nel nostro presente. Una prospettiva che necessita di uno sguardo analitico che percorra, in tutte le sue direzioni, gli ultimi trent’anni. Il nostro presente, infatti, coincide con un tempo che ha inizio da un evento dalla fortissima carica periodizzante: la fine dell’Urss. Lo sguardo suddetto non dovrebbe essere prerogativa degli storici che, peraltro, cercano elementi di comprensione dei trent’anni del nostro presente in temporalità multiple, ma dovrebbe esserlo anche quel giornalismo che si avventura sul piano dell’analisi politica. Ovviamente si tratta di una dimensione dove gli interrogativi abbondano insieme ai «però».

L’invasione dell’Irak è stata un errore/orrore relegato al passato? Oppure un evento, non deterministicamente necessario, di una lunga opzione strategica maturata dagli Stati Uniti dopo il 1991?L’invasione dell’Ucraina è un evento dovuto ad un colpo di pazzia di Putin, oppure un errore/orrore, anch’esso non determisticamente necessario, di una lunga opzione strategica della Russia maturata fin dagli inizi del nuovo secolo? E questi errori/orrori non erano forse delle possibilità interne al clima conflittuale di due imperialismi dei nostri tempi? Certo che la rappresentazione in termini di scontro di civiltà, universalismo democratico contro universalismo delle dittature, è narrazione caricaturale e propagandistica. Però…..