I I Nella scia del dibattito sulla destinazione del 2% del Pil alla spesa militare, in questi giorni su diversi quotidiani si fa l’elogio delle spese per la difesa e del riarmo che servirebbero a garantire l’indipendenza del paese e la sicurezza internazionale. E anche – per i più «spregiudicati» – l’occupazione e la crescita del paese.

Al contrario di quello che lamentano molti opinionisti dei quotidiani più importanti, l’aumento delle spese militari (al contrario delle spese per la salute e l’istruzione) è una costante degli ultimi anni. In Italia, in dieci anni, le spese militari sono aumentate di oltre il 15%. A livello mondiale, come ci ricorda il Sipri, la spesa per le armi nel 2021 (in piena pandemia) sono aumentate del 2,6%. Sembra poco, ma sono 50 miliardi di dollari in più, dieci volte tanto di quanto nello stesso anno si è stanziato per il Covax, l’iniziativa internazionale per inviare gratuitamente vaccini contro il Covid 19 ai paesi più poveri. Se tutti i paesi della Nato destinassero il 2% del loro Pil, l’aumento di spesa ogni anno sarebbe complessivamente di 75 miliardi di euro cioè la metà di quanto i paesi Ocse destinano per l’aiuto ai paesi più poveri e 25 volte in più del bilancio annuale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Dopo il 1989 i leader mondiali ci avevano promesso che sarebbero finalmente arrivati i «dividendi di pace», mentre invece le principali imprese di armi, dalla Lockheed a Leonardo, hanno distribuito come non mai da allora i «dividendi di guerra», vendendo armi a destra e a manca. Proprio Leonardo ha visto aumentare il suo valore azionario durante il mese di guerra in Ucraina di quasi il 20% e ha venduto l’anno scorso 340 milioni di euro di armi al Tajikistan (che non ha detto una parola sulla guerra in corso) paese vicino a Putin, in cui si violano i diritti umani, vengono messi in carcere i giornalisti indipendenti e vengono praticate la tortura e il lavoro forzato. Ma le armi sono un business e non ci si ferma davanti a nulla. Per dirla con un film di Alberto Sordi: Finché c’è guerra c’è speranza. Sicuramente per i listini di borsa dei produttori d’armi.

Non si ricordano mozioni parlamentari approvate in cui si impegna il governo a destinare l’8% ( dal 7,3%) alla sanità (definanziata nel nostro paese per anni) e il 5% (dal 3,9%) del Pil all’istruzione (siamo il fanalino di coda tra i paesi europei). Per le armi invece questo si può fare: le armi sono più importanti degli ospedali. Per dare un’idea: con i circa 12 miliardi che spenderemo in più per le armi (se vogliamo raggiungere il 2% del Pil) potremmo mettere in sicurezza le oltre 10 mila scuole italiane che cadono a pezzi, oppure potremmo garantire a tutte le persone non autosufficienti in Italia (circa 3 milioni e mezzo) un’assistenza pubblica e gratuita, senza dover ricorrere al mercato.

Si dice, demagogicamente, che l’industria militare crea lavoro. Sì, ma molto poco. Vent’anni fa ci avevano detto che con i cacciabombardieri F35 avremmo avuto 10 mila posti di lavoro. Invece sono poco più di mille (una parte spostati da altre produzioni come l’Eurofighter: non si tratta di nuovi assunti). E molte ricerche (tra queste una storica del Massachusetts Institute of Technology) evidenziano che l’industria militare è a «bassa intensità di lavoro» in comparazione a produzioni civili che usano la stessa tecnologia.

Perché invece di cacciabombardieri si possono fare aerei antincendio, invece di sistemi di puntamento per i blindo si possono fare le apparecchiature per la Tac, invece di elicotteri d’attacco, elicotteri per l’elisoccorso. Sul sito della campagna Sbilanciamoci! (www.sbilanciamoci.info) c’è una rassegna dettagliata di tutte le possibilità alternative.

Rimane poi il nodo di fondo. A cosa servono le armi? Ad essere usate per la guerra. Ora la guerra, oltre che essere un crimine, ha dimostrato di essere negli ultimi 30 anni completamente un disastro, una distruzione di risorse e di vite umane, soprattutto dei civili. Fallimentare in Afghanistan dove, dopo aver speso una montagna di soldi (solo l’Italia 9 miliardi di euro) in 20 anni per la guerra, siamo al punto di partenza. Fallimentare in Medio Oriente, dove dopo due guerre del Golfo, non c’è certo sicurezza nell’area, né pace per i palestinesi. Fallimentare in Libia, dove – dopo i bombardamenti occidentali propedeutici alla defenestrazione di Gheddafi- da 10 anni si combatte una sanguinosa guerra civile interna e contro i migranti. E fallimentare sarà la guerra di Putin contro l’Ucraina.

Alcuni opinionisti, per perorare la causa della Nato, ci ricordano che sì, l’Italia ripudia la guerra ma nell’articolo 11 della Costituzione c’è scritto anche che il paese consente «alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Questi opinionisti, a digiuno di storia, si scordano di dirci che quando fu scritta la Costituzione, la Nato non c’era, ma esistevano invece le Nazioni unite, cui i costituenti evidentemente si riferivano e che i fautori della Nato, una guerra dopo l’altra, hanno sistematicamente demolito. E allora, Sandro Pertini, si batté per inserire la riduzione delle spese militari in Costituzione. E da presidente della Repubblica ripetè più volte che bisognava «svuotare gli arsenali e riempire i granai».

Armandoci fino ai denti non ci sarà pace e sicurezza, ma solo crescita dei rischi di nuove guerre e di altre tensioni internazionali. È sempre stato così nella storia del secondo dopoguerra. E la guerra in Ucraina è solo l’occasione per accelerare politiche sbagliate fondate su un riarmo fonte di nuovi pericoli. Ecco perché la strada non può che essere quella della prevenzione dei conflitti, delle Nazioni unite e del disarmo.