Cultura

Elif Shafak, l’incontro dell’umanità grazie a fiumi e pioggia

Elif Shafak, l’incontro dell’umanità grazie a fiumi e pioggiaIkon Images

Narrativa «I ricordi dell’acqua» della scrittrice turco-britannica per Rizzoli. L’acqua unisce i punti della vasta rappresentazione storica allestita nel romanzo. Ma si tratta di uno strumento che lega letterariamente destini ed epoche, stagioni e cicli delle vicende umane, indicando, proprio come avviene con gli elementi della natura, che nulla nasce o conclude la propria esistenza in modo isolato, senza essersi intrecciato con quanto lo circonda. La presentazione oggi alle 21.30 al Festival di Mantova con l’autrice e Olga Campofreda

Pubblicato circa un mese faEdizione del 7 settembre 2024

Seguire la traiettoria di una singola goccia di pioggia e il suo potersi trasformare in vita, ma talvolta anche in morte; risalire il corso dei fiumi e cogliere il portato di storie e avvenimenti che il loro letto ha accolto nel corso del tempo; specchiarsi nella terra allagata cercando tracce di un mondo perduto, come di quello di là da venire. Le storie che come invisibili fili della memoria finiscono per intrecciarsi nel definire un passato che non potrebbe interrogare il presente in modo più compiuto e coerente, sembrano muovere tutte dallo stesso elemento.

Eppure quello che Elif Shafak ricompone ne I ricordi dell’acqua (traduzione di Daniele A. Gewurz e Isabella Zani, Rizzoli, pp. 540, euro 20) è prima di tutto l’orizzonte di un’umanità che, pur tra mille tragedie, non smette di incontrarsi e dove ciascuno cerca, forse disperatamente ma con grande coraggio e determinazione, di riconoscersi in qualche modo nella vita dell’altro.

Tra le protagoniste del Festivaletteratura, Shafak sarà questa sera a Mantova (alle 21,30 a Piazza Castello in dialogo con Olga Campofreda).

IL TRAMITE, CERTO, È L’ACQUA, che unisce i punti della vasta rappresentazione storica che la scrittrice turco-britannica ha allestito nel suo nuovo romanzo. Ma, appunto, si tratta di uno strumento che lega letterariamente destini ed epoche, stagioni e cicli delle vicende umane, indicando, proprio come avviene con gli elementi della natura, che nulla nasce o conclude la propria esistenza in modo isolato, senza essersi intrecciato con quanto lo circonda.

«L’acqua» che accompagna il fluire della narrazione ci porta così via via dal 650 avanti Cristo, nel palazzo reale di Assurbanipal, sovrano colto ma sanguinario di Ninive, «la più grande e ricca città del mondo, edificata in un’ampia pianura sulla riva orientale del Tigri», alla seconda metà dell’Ottocento, a Londra, lungo le sponde del Tamigi, dove «i ramazzini» setacciano il fiume, inquinato e maleodorante, muniti di lunghe pertiche, visto che tra «i recessi più torbidi si nasconde sempre qualcosa di buono da raccattare: rottami di ferro, monete di rame, posate d’argento» e ogni sorta di oggetti che dalle strade e i parchi della città è finito nella canalette di scolo delle strade e da lì nel fiume.

Nella biblioteca di Ninive si studiava l’epopea di Gilgamesh, nota in tutta la Mesopotamia e poi nel resto del mondo antico che narrò anche del diluvio che mise fine alla società babilonese, mentre sulle sponde del Tamigi, da una delle donne che scavava nella melma alla ricerca di «tesori», nascerà «Re Artù di Cloache e Catapecchie» destinato però a diventare proprio uno dei maggiori studiosi delle «tavolette» di Gilgamesh.

INFINE, c’è ancora il Tigri, ma quello dei giorni nostri, intorno a cui incombono guerra e odio che minacciano l’esistenza della piccola Narin, una bambina yazida, popolo cui i tagliagole dello Stato islamico hanno promesso morte e distruzione. E, ancora una volta, il Tamigi di Zaleekhah, il cui nome significa «colei che vide il profondo», che dal Medioriente ha scelto Londra per rifarsi una vita e qui lavora come idrologa vivendo in una casa galleggiante lungo il corso del Tamigi, ora bonificato.

IL PASSAGGIO DA UN’EPOCA all’altra, da una figura all’altra, si compie perciò seguendo le tracce che l’acqua ha lasciato dietro di sé. I mondi perduti dell’antichità sembrano così specchiarsi nel presente incerto, spaventoso nel quale i protagonisti del romanzo proiettano le proprie incertezze, la propria voglia di libertà e di riscatto. L’evocazione dell’odierno massacro degli yazidi in quelle stesse terre che furono un tempo tra le culle della civiltà indica un possibile punto d’arrivo della storia umana.

Ma anche un punto da cui ripartire, come indica Elif Shafak che fin dai tempi di La bastarda di Istanbul (Rizzoli, 2007), non il suo primo ma senza dubbio il più noto tra i suoi romanzi – oltre una decina solo nell’ultimo ventennio -, aveva scelto di raccontare il legame, oltre ogni barriera, tra una ragazza armena e una turca, capaci di elaborare insieme il passato tragico dei loro popoli e di far luce sul genocidio degli armeni che in Turchia è ancora oggi negato dalle autorità.

COSÌ, ne I ricordi dell’acqua, il dolore che la memoria porta con sé è destinato ad incontrare la consapevolezza che il futuro può mutare e racchiudere gioia, speranza e libertà. L’incontro con l’altro è la chiave, spesso non l’unica, ma la più importante. Un orizzonte che per la scrittrice si traduce in pagine di incredibile poesia e in uno sguardo rivolto serenamente all’avvenire proprio perché consapevole di come si è giunti fino a qui. Come sembrano indicare le ultime frasi del libro: «Se solo potessimo guardare il mondo con gli occhi di un bambino, levandoli con innocente meraviglia, potremmo vedere i fiumi nel cielo. Fiumi impetuosi che non smettono mai di scorrere».

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