Elia Suleiman: «Tutti i paesi sono sempre più vicini nelle follie nazionalistiche»
Cannes 72 Intervista al regista di «It Must be Heaven», in concorso a Cannes dopo quasi dieci anni di silenzio trascorsi da «Il tempo che ci rimane»
Cannes 72 Intervista al regista di «It Must be Heaven», in concorso a Cannes dopo quasi dieci anni di silenzio trascorsi da «Il tempo che ci rimane»
Elia Suleiman si siede sorridendo: si può fumare? No, anche se siamo all’aperto, davanti al mare, è vietato. A guardarlo sembra scivolato fuori dallo schermo fino a quel divano bianco, stessa giacca, stesso cappello di paglia. «Ma io mi vesto così» dice. È bello vederlo tornare al cinema, e con un film tra i migliori del concorso dopo quasi dieci anni di silenzio – Il tempo che ci rimane era del 2009. «Avevo in mente questo film da molto tempo, i materiali che utilizzo li ho accumulati negli ultimi vent’anni, per esempio la storia dell’homeless a Parigi a cui i servizi sociali servono la colazione… Non ho preso nulla invece dai media, non mi interessano le notizie che sono state già confezionate per affermare una tesi o un’altra» dice.
In «It Must be Heaven» ritroviamo il personaggio di ES, che è protagonista in tutti i tuoi film; sei tu e al tempo stesso no, anche se compie il tuo stesso viaggio, Nazareth, Parigi, New York sono le città dove hai vissuto.
Il mio punto di partenza sono sempre dei personaggi, uno sono io ma gli altri hanno la stessa importanza perché ci raccontano delle storie di fronte alle quali ciascuno ha una sua reazione. Qui volevo vedere come una situazione viene vissuta in ogni realtà, un francese avrà una reazione diversa dalla mia osservando le stesse cose in Francia e così un palestinese in Palestina rispetto a qualcuno che viene da fuori. E’ vero, ho vissuto in queste città ma nei miei ricordi c’è sempre una parte di invenzione. Sono cresciuto in una Paese occupato dal 1948, per me era inaccettabile, ma questa era la realtà, le parole «Palestina» o «palestinese» non potevano nemmeno essere pronunciate. Negli anni ho compreso che ogni paese ha dei lati che chi lo abita non riesce a accettare, a volte nemmeno riesce a riconoscerli, mentre io che vengo da un altro posto ne sono persino affascinato. La nostra origine nel mondo ne modifica la percezione, come dice bene Trinh T. Minh- (regista e scrittrice vietnamita) col concetto di «I speak nearby».
In questo viaggio però è come se le differenza si fosse annullata, il paradiso non esiste da nessuna parte e il mondo sembra sempre più uguale negli aspetti negativi di violenza, sopraffazione, mancanza di democrazia. È impossibile riconoscersi ovunque?
Le differenze si sono assottigliate, occidente e oriente, nord e sud del mondo sono vicini purtroppo in una idea di fascismo, nelle follie nazionalistiche, nelle politiche di esclusione. Si celebra dappertutto un pensiero fascista – l’Italia è un buon esempio in questo senso – il neoliberismo ha unificato le economie. È tragico ma al tempo stesso è rivelatorio: se un tempo l’occidente poteva dare lezioni a quella parte del mondo «inferiore» e privo di democrazia, oggi non può più.Abbiamo capito con chiarezza che le sue guerre per esportare la democrazia erano una farsa. In fondo in Palestina c’era già tutto, l’occupazione israeliana è stato un laboratorio visto che Israele è un paese fascista da sempre, fondato sullo sterminio e sulla conquista.
Il tuo racconto della realtà utilizza sempre, film dopo film, l’astrazione. A cominciare dalla scelta frontale delle inquadrature.
Ciò che conta per me è il linguaggio cinematografico. È lì che il film trova la sua espressione, non mi interessa sottometterlo a una storia. La frontalità delle immagini risale ai miei primi cortometraggi, non avevo mai studiato cinema, il mio percorso di cineasta è stato un po’ casuale. A un certo punto mi sono trovato nelle mani una macchina da presa che mi aveva regalato mio padre, non sapevo bene come controllarla così mi sono seduto sul divano e ho capito che il mio punto di vista doveva coincidere con la mia posizione. È semplice, non c’è bisogno dei grandangoli per creare delle illusioni.
Rispetto il film precedente, «Il tempo che ci rimane», il tuo personaggio è forse meno al centro anche se è il suo sguardo che crea un nuovo modo di vedere quanto ci circonda.
Il tempo che ci rimane mi coinvolgeva molto personalmente, parlava della malattia di mia madre e della sua morte. In questo film invece, come ti dicevo, mi muovo spinto dalla curiosità di osservare le reazioni delle persone diversi paesi e culture. Così anche se il mio personaggio è sicuramente centrale ho provato a metterlo un po’ da parte, e invece che all’io-io-io ho pensato piuttosto a un narratore. La sua presenza ci guida ma, al tempo stesso, lascia allo spettatore la possibilità di riconoscersi da qualche parte. Non mi è mai piaciuto offrire una spiegazione per ogni argomento che affronto nei miei film, preferisco pensare che lo spettatore crei una relazione con le immagini legata al piacere, in cui si sente libero e non guidato da ciò che io voglio dimostrare.
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