Oggi grande tornata elettorale nel Regno Unito: si vota per le amministrative, con seggi aperti dalle sette del mattino alle dieci di sera in 200 enti locali di Scozia, Galles e Londra e in gran parte del resto del paese. A Londra potranno votare i cittadini del Regno Unito, del Commonwealth o dell’Unione Europea, di età pari o superiore ai 18 anni purché residenti a Greater London, la regione della capitale. Sono elezioni soprattutto “metropolitane” e questo – in un paese dove grossomodo la campagna è ricca e (certe) zone urbane sono povere – dovrebbe giocare a favore del Labour.

Il confronto chiave sarà a Londra, guidata da un sindaco laburista, Sadiq Khan, dal 2016. Il partito controlla già 21 dei 32 council, mentre i conservatori ne difendono soltanto 7. Il Labour cercherà di rafforzare il proprio controllo della capitale conquistando roccaforti Tory come Barnet e Westminster. A loro volta, i conservatori proveranno a strappare ai laburisti Croydon e Harrow.

Soprattutto in Inghilterra, queste elezioni sono una sorta di referendum sull’ulteriore tollerabilità di un governo a guida Boris Johnson, con il premier che barcolla da una crisi all’altra al punto da essersi fatto superare nei sondaggi dal neo-New Labour sdoganato da Keir Starmer.

Come vuole l’ormai endemica instabilità di qualsiasi istituzione democratica, a cinque anni dalle ultime elezioni amministrative, nel 2017, gli scenari sono convulsamente mutati. Pur uscente, il paese era ancora nell’Unione europea, il primo ministro era Theresa May e il Labour era guidato da Jeremy Corbyn. Il resto è cronaca: messi da parte la troppo filoeuropea May e il virulento antisemita Corbyn, a guidare (in retromarcia) il paese in questi tempi di pestilenza e guerra è rimasto questo Johnson, l’unico primo ministro europeo capace di incarnare la trinità collodiana di gatto, volpe e burattino.

«Bravissimo a vincere le elezioni ma incapace di governare» è il non peregrino ritornello affibbiatogli di solito. E già dalla fine delle negoziazioni Brexit, Johnson sembrava avviato verso un declino mai abbastanza lento per via delle arcinote, innumerevoli marachelle: le sue – il partygate, le multe della polizia per le feste pandemiche – e quelle consustanziali all’accozzaglia di destra di cui è araldo: sessismi a go-go, appalti per gli amici degli amici, ecc.

C’è poi il red wall, il mur(ett)o rosso della working class del nord, strappata nel 2019 ai laburisti anche grazie ai balbettii pro-Ue della destra di quel partito nello stesso autolesionismo che ha portato al fango su Corbyn: difficile che i Tory mantengano la fiducia presso comunità dove le pinocchiate di Johnson incontrano i severi sguardi puritani del Nord, a prescindere da quante volte si faccia paracadutare a Kiev. Anche e soprattutto per questo, secondo un sondaggio, i conservatori sarebbero sulla buona strada per perdere quasi 550 seggi nella peggiore performance da quando Tony Blair (ormai riabilitato e prossimo alla beatificazione) guidava al galoppo i laburisti nei formidabili anni ’90, quando la City sprintava tachicardica a coca e champagne. Se “Boris” non è ancora stato defenestrato, è per via dello schianto in gradimento dell’ex premier in pectore Rishi Sunak, travolto dall’oscena ricchezza esentasse della moglie e dalla propria.

Nel Galles dominato ininterrottamente dai laburisti da un secolo non ci si aspettano grandi rivolgimenti; mentre in Scozia, dove si vota col proporzionale, secondo i sondaggi per i Tory si prospetta una mazzata che li vedrebbe retrocedere a terzo partito dietro Labour e naturalmente, Snp.

Ma i veri guai per Johnson sono nordirlandesi, perché è agli unionisti del Dup che la sua gestione Brexit ha dato un ceffone: il famoso protocollo da lui negoziato, un accordo che in buona sostanza crea un confine attraverso il Mare d’Irlanda, culmina nel sostanziale calo del sostegno al più grande partito unionista. Qui non si tratta di cronaca, ma di storia: sempre secondo i sondaggi, per la prima volta dalla spartizione nel 1922, un partito unionista non sarà più alla guida di un assetto costituzionale pensato apposta per dargli la maggioranza. Non oltre il 20%, il Dup è dietro lo Sinn Féin, al 26-27%. I nazionalisti nordirlandesi potrebbero rivendicare la carica di primo ministro, lasciando quella di vice al Dup. Dopo la sutura frettolosa del pastrocchio Brexit, il bubbone nordirlandese è prevedibilmente cresciuto, ed è lecito temerne una non troppo remota esplosione. L’ultima, solo in ordine di tempo.