Gujarat, ancora una volta. Lo stato indiano ad aver dato i natali a Narendra Modi e averne accompagnato l’ascesa politica è anche il teatro della condanna al suo principale oppositore. Rahul Gandhi, presidente del Partito del Congresso, è stato giudicato colpevole di diffamazione ai danni del primo ministro ultranazionalista.

E rischia ora di non poterlo sfidare alle elezioni generali del 2024. Il motivo è quanto ha detto in un discorso prima del voto del 2019, in cui denunciava la corruzione dilagante e in cui aveva fatto riferimento al primo ministro e a due uomini d’affari latitanti, tutti col cognome Modi. Il componente della più celebre dinastia politica indiana è stato condannato a due anni di carcere da un tribunale della città di Surat.

LA CORTE gli ha concesso la libertà provvisoria e ha sospeso la pena per un mese. Gandhi, presente in aula alla lettura della sentenza, ha già annunciato ricorso. L’opposizione ha subito definito la condanna di natura politica. Il Gujarat è uno dei centri di maggiore potere di Modi.

Qui, durante il suo mandato da governatore, sono esplose le violenze di massa contro la minoranza musulmana del 2002. Modi è stato assolto diversi anni dopo dalle accuse di non aver fatto abbastanza per fermare la strage (mille morti ufficiali e 2.500 ufficiosi), ma ha sempre cavalcato la retorica nazionalista e identitaria indù per ascendere al potere e poi mantenerlo.

Secondo il Congresso, la condanna di Gandhi è il risultato di un governo «vile e dittatoriale» che sarebbe «spaventato» perché il leader dell’opposizione sta «smascherando le sue azioni oscure». Il Bharatiya Janata Party di Modi risponde: «Il Partito del Congresso obietta alla legge indiana: vuole che Gandhi abbia piena libertà di pronunciare abusi».

In ogni caso, la condanna rischia di avere un forte impatto sulle elezioni del 2024, dalle quali Modi è convinto di ottenere un terzo mandato. Ai sensi della legge che regola il processo elettorale indiano, qualsiasi deputato che sia «condannato per qualsiasi reato e condannato a una pena detentiva non inferiore a due anni» è destinato a perdere il posto. Formalmente, l’espulsione dovrebbe cominciare dal giorno della condanna ma deve comunque essere approvato un ordine formale dalla segreteria della camera bassa del parlamento.

SIGNIFICA che Gandhi rischia seriamente di non potersi candidare, a meno che la condanna non venga sospesa o cancellata. Se i due anni di carcere fossero confermati, non potrà invece candidarsi per sei anni dopo la fine della pena.

Una prospettiva esiziale per l’opposizione, che sembrava in procinto di archiviare parzialmente l’atavica frammentazione per unirsi intorno a Gandhi. Ha infatti ricevuto il sostegno dell’Aam Aadmi Party, che amministra la capitale. Forse ancora poco per battere Modi, che gode di grande popolarità presso i cittadini indiani.

Consenso favorito anche da una presa sempre più forte sul discorso pubblico. Nel 2022 l’India è crollata al 150esimo posto su 180 per la libertà di stampa: la peggior posizione di sempre. Ndtv, una delle poche voci neutrali o critiche del governo rimaste, è passata sotto il controllo del multimiliardario Gautam Adani. Anch’egli proveniente dal Gujarat, è da anni uno stretto alleato di Modi.

Nei mesi scorsi, Gandhi ha compiuto una lunga marcia di 3.500 chilometri attraverso decine e decine di città e villaggi del paese. Dall’estremo sud al Kashmir, lo stato a maggioranza musulmana la cui autonomia è stata improvvisamente revocata dal governo nel 2019. Ma nemmeno questo sembra aver rilanciato significativamente le possibilità di vittoria del Congresso, che oggi controlla meno del 10% dei seggi dopo aver dominato per decenni la politica indiana. Prima che si instaurasse il sempre più pervasivo sistema di potere di Modi, in cui la presenza di un’opposizione forte non è prevista.