Se è ancora possibile che un capolavoro letterario, considerato nel caso specifico un fondamento di tutta la letteratura ispanoamericana, arrivi da noi solo sessant’anni dopo la sua pubblicazione, e se peraltro anche nei paesi di lingua spagnola era introvabile da decenni, converrà indagarne le ragioni, perché è probabile illuminino questioni che vanno oltre il singolo titolo: I ricordi dell’avvenire di Elena Garro «è probabilmente il miglior romanzo messicano scritto nel Novecento» – conclude Guadalupe Nettel, paragonandolo per levatura letteraria solo a Pedro Páramo di Juan Rulfo, nella sua postfazione alla prima edizione italiana (un’altra venne stampata a uso accademico da Aracne nel 2010) che esce ora da Sur nella bella traduzione di Francesca Lazzarato (pp. 348, € 20,00).

Diverse ragioni – molte delle quali legate alla sua biografia – hanno concorso al disinteresse verso Elena Garro, sebbene la sua vita sia paradigmatica di tante esistenze novecentesche: ebbe una burrascosa e contraddittoria relazione con Octavio Paz, venne coinvolta negli avvenimenti del ’68 messicano e di conseguenza si autoesiliò, oltre a ritrovarsi implicata nella Guerra di Spagna e nelle lotte contadine del Messico, negli anni Cinquanta.

A una prima stagione della sua opera, che si concluse nel 1968, corrispondono romanzi e racconti il cui stile è vicino al realismo magico e, in genere, alla cultura messicana; mentre i testi del periodo successivo si concentreranno sulla fuga, la lontananza e l’abbandono. Senza dubbio, l’esistenza movimentata di  Garro – dal conflittuale matrimonio con Paz all’attivismo politico, al frequente disaccordo con i gruppi intellettuali messicani provocato anche dalla sua indole difficile – ha favorito la sua lunga emarginazione dal mondo letterario, finendo con l’estrometterla dal canone della letteratura ispanoamericana; ma la qualità della sua scrittura è indiscutibile così come l’importanza del suo esordio romanzesco, scritto nel 1953 e pubblicato dieci anni dopo, insieme agli splendidi racconti de La semana de colores, e alle sue migliori opere teatrali.

I ricordi dell’avvenire esibisce già, infatti, una maturità e una vena originale straordinarie, grazie all’allestimento di uno spazio-tempo strettamente interconnesso che realizza quell’inclusione del futuro nel passato suggerita nel titolo. Radicato nei ricordi dell’infanzia trascorsa a Iguala e sullo sfondo storico della Guerra Cristera – un conflitto religioso degli anni Venti – il romanzo è raccontato da un narratore corale, che esibisce continue trasgressioni sociali, di cui fa parte anche l’inedito ruolo assegnato alle donne. E mentre fa pesare gli elementi storici, apre varchi immaginativi nella durezza della quotidianità.

Ambientato nell’immaginaria cittadina di Ixtepec sullo sfondo consolidato delle lotte rivoluzionarie, il romanzo disegna una trama bipartita: nella prima parte il paese è occupato da un distaccamento guidato dal generale Francisco Rosas, che si accompagna a Julia Andrade, di cui si è innamorato dopo averla rapita. Arriva in città uno scrittore di teatro, Felipe Hurtado, che sembra aver avuto in passato una relazione con Julia. L’ordine viene sconvolto, ma i due amanti riescono a fuggire, in una notte in cui il tempo magicamente si congela.

Elena Garro a Parigi nel 1949
Elena Garro a Parigi nel 1949

Nella seconda parte, la guerra trova più spazio e con essa la persecuzione dei cattolici, l’assalto alle chiese, il coinvolgimento degli abitanti del paese, e in particolare della famiglia Moncada: due fratelli si schierano contro i militari e vengono uccisi, mentre la sorella Isabel comincia una storia d’amore con Rosas, speculare a quella di Julia Andrade con lo scrittore teatrale, che innescherà il finale del romanzo.

Tra Storia e destini individuali, il ruolo protagonista è recitato dal tempo, quello lineare e quello spezzato da fatti straordinari, entrambi inseriti nel moto di una circolarità ancestrale. Il fatto è che nella cittadina di Ixtepec il tempo immaginario è suscettibile di fermarsi all’improvviso, come in una fotografia in cui i volti, gli oggetti e il paesaggio danno l’illusione di esistere per sempre. Come scriverà Octavio Paz in Los hijos del limo, la fine dei tempi è un nuovo inizio, il disfarsi del passato contiene la sua resurrezione, in un ciclo senza fine, presente dalla prima all’ultima pagina dei Ricordi dell’avvenire.

Nel memorabile primo capitolo, pur essendo la principale voce narrante affidata alla cittadina di Ixtepec, a parlare non è la somma dei suoi abitanti, bensì la scomposizione delle diverse voci che portano le opinioni dei cittadini e i loro sentimenti spesso contrastanti, in una polifonia peculiare che contempla quella componente critica nascosta nell’amara ironia popolare (presente anche nei racconti di Rulfo) tramite la quale si rivela l’empatia di  Garro con i contadini e gli indios per la cui causa militava.

La carica simbolica dei personaggi maschili si dispiega nella violenza o nella lotta per la conquista del potere, mentre altri – Felipe Hurtado o Juan Cariño fra questi – aprono cammini di liberazione. Ma è alle due donne protagoniste che spetta la sintesi del progetto narrativo: la natura ribelle del personaggio di Isabel lo esemplifica chiaramente, quando abbandonata la famiglia per unirsi a Rosas, in questa sfida ai principi basilari della società patriarcale incontra un ostacolo fatale, quella passione per il generale che la porterà alla tragedia, attraverso una nuova mutazione magica.

Sebbene la critica abbia molto discusso sulla appartenenza del romanzo all’incerta galassia del realismo magico (più volte negata dall’autrice messicana) è evidente se non altro come il suo esordio anticipi di più di un decennio molte delle soluzioni narrative che García Márquez avrebbe poi ambientato a Macondo. La scrittura di Elena Garro sembra rimandare alla concezione messicana della coesistenza di piani diversi della realtà, ma se in Carpentier o in García Márquez l’approdo a un archetipico inconscio collettivo ha una valenza culturalmente identitaria, in Garro l’ibridazione di tempi, spazi, eventi porta alla formazione di un punto di vista «altro», il cui effetto è una critica sociale che lavora per l’affrancamento delle donne dal potere maschile.

Nella costruzione di questa sua architettura narrativa Garro spalanca davanti ai nostri occhi una realtà dolente e tragica, che nasconde nei suoi interstizi bagliori di scintillante bellezza. La sua scrittura è dotata di una enorme potenza evocativa, che la traduzione di Francesca Lazzarato riesce a trasmettere in modo mirabile. Per esempio, quando segue il matto del paese, Juan Cariño, che si crede sindaco, e confidando nell’esercizio del potere tramite il controllo delle parole, cammina per le strade di Ixtepec alla ricerca di vocaboli intrisi di cattiveria, dei quali intende separare le lettere allo scopo di annullarne la capacità di fare del male: «le parole erano pericolose perché godevano di un’esistenza autonoma, e la difesa dei dizionari evitava catastrofi inimmaginabili. Le parole dovevano restare segrete. Se gli uomini avessero saputo della loro esistenza, le avrebbero pronunciate spinti dalla malvagità, facendo saltare in aria il mondo. Gli ignoranti ne conoscevano già troppe e se ne servivano per provocare sofferenze».