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El Chapo, narcos pop

El Chapo, narcos popL’arresto del Chapo da parte dei militari messicani lo scorso 15 gennaio – Ap

Il caso Il processo contro Joaquín Guzmán Loera segna il crepuscolo di un nemico pubblico trasformatosi in icona della cultura criminale. La cui fama è sfruttata ora da Trump per blindare il confine. Il nome del padrino del cartello di Sinaloa è stato infatti invocato dal senatore texano Ted Cruz per una legge che destinerebbe i fondi sequestrati al boss alla costruzione del «muro»

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 21 febbraio 2019
Luca CeladaLos Angeles

Il processo di Joaquín Guzmán Loera detto El Chapo è durato tre mesi e si è concluso con una condanna annunciata per il super boss dei narcos messicani molte volte sfuggito alla giustizia. Il figlio di un allevatore (e coltivatore di marijuana) di La Tuna, frazione montana di Badiraguato nella Sierra Madre occidentale, assurto a padrino del cartello di Sinaloa, riceverà la sentenza del tribunale superiore di Brooklyn il 25 giugno prossimo, e quasi certamente si tratterà di uno o più ergastoli consecutivi (la pena di morte pur vigente negli Stati uniti non potrà venire applicata per le condizioni imposte dal Messico per l’estradizione del Chapo avvenuta nel 2017.)

EPPURE IL PROCEDIMENTO a carico del più famigerato trafficante di stupefacenti nei pur efferati annali della mafia messicana è stato lievemente deludente – o almeno prevedibile – per chi si fosse aspettato un maxiprocesso pieno di colpi di scena. Anche perché difficilmente avrebbe potuto mantenere le aspettative suscitate da una vita rocambolesca, già ampiamente romanzata, cantata in narco corridos e adattata in numerose fiction tv. E la saga «pop» di El Chapo è destinata a continuare come ha attestato la presenza in aula di Alejandro Edda, l’attore che ha già interpretato il ruolo del boss in Narcos: Mexico su Netflix e che continuerà a farlo nelle future puntate che ripercorreranno la parabola del boss nella sua ascesa e caduta fino, presumibilmente, all’epilogo del processo stesso.

GLI SCENEGGIATORI delle fiction prossime venture potranno attingere dagli atti che hanno registrato le testimonianze di 56 testi per l’accusa compresi numerosi pentiti con ruoli di rilievo nella rete di distribuzione che per oltre due decenni ha fornito cocaina, eroina, marijuana, metanfetamina ed oppiacei sintetici al maggior mercato mondiale, gli Stati uniti.

FRA COLORO che hanno raccontato dettagli sulle operazioni, la struttura, le abitudini e la violenza usata per eliminare concorrenti e mantenere il comando, ci sono stati una serie di soci e dipendenti nell’associazione a delinquere fra cui Cristian Rodriguez, l’incaricato delle operazioni informatiche del cartello che su richiesta del Chapo installò spyware sui telefoni di persone su cui il boss voleva poter spiare. Le registrazioni segrete effettuate dal boss sono diventate prove usate dai pm contro di lui nel processo, comprese le intercettazioni di numerose amanti che il Chapo controllava di nascosto attraverso i microfoni e le telecamere dei cellulari. La voluminosa corrispondenza elettronica è stata letta in tribunale alla presenza dell’ultima moglie del boss, Emma Coronel (ex «miss Guava e Caffè» dello stato di Durango), impassibile e apparentemente incrollabile sostenitrice del marito.

Merchandising ispirato al capo del cartello di Sinaloa, foto Ap

IL PROCESSO ha offerto scorci del repertorio di violenze su cui si basa il regno di terrore instaurato dai cartelli. Fra i dettagli raccapriccianti emersi nelle udienze, la descrizione di covi dotati di stanze insonorizzate per la tortura e scoli per il sangue e l’esecuzione di tre membri del cartello rivale Los Zetas portata a termine personalmente dal Chapo dopo un pestaggio durato ore culminato nell’uccisione a bruciapelo e, in almeno un caso, nella sepoltura da vivo del malcapitato.

L’ALTRO DATO FONDAMENTALE delle mafie messicane confermato dal processo è la corruzione capillare di ogni livello delle autorità dello Stato. Nel caso del Chapo le mazzette milionarie oculatamente distribuite hanno permesso le sue rocambolesche fughe di prigione. La prima nel 2001, avvenuta dopo aver scontato otto anni di una condanna a vent’anni, lo ha visto scappare nascosto in un carrello della biancheria dal penitenziario di massima sicurezza di Jalisco dopo aver corrotto 74 membri del personale compreso il direttore del carcere.
Dopo il nuovo arresto nel 2014, Guzman è stato poi protagonista di una fuga ancora più clamorosa dal penitenziario Altiplano attraverso un tunnel lungo 1,5 km scavato sotto la cella del capo dotato di sistemi di filtraggio dell’aria e fornito di una moto su rotaia.

IN SEGUITO, LA CATTURA definitiva del Chapo avverrà dopo uno degli episodi più bizzarri della sua pur movimentata carriera: l’incontro con Sean Penn e la stella delle telenovelas messicane Kate del Castillo, col presunto scopo di trattare un adattamento hollywoodiano «autorizzato» della propria biografia. Sarebbe invece risultato un articolo di Penn per Rolling Stone e l’arresto del boss poco dopo, con il sospetto di un «aiuto» proprio da parte di Penn – se c’è da credere alle successive affermazioni di Del Castillo.

Gli anni fra il 2001 e il 2014 sono stati quelli che hanno sconvolto il Messico con l’escalation della violenza nella guerra fra cartelli. Il conflitto ha visto la banda di Sinaloa emergere come egemone e consolidare il proprio potere grazie anche al presunto favoreggiamento da parte dell’amministrazione di Felipe Calderón. Nel decennio della sanguinosa ed inefficace guerra alla droga vennero effettuati 53000 arresti ma solo 1000 colpirono direttamente l’organico sinaloense, dando abbondante credito ai sospetti di connivenze fra mafia e stato e all’uso della delazione «mirata» da parte del cartello del Chapo per colpire i propri rivali.

FRA LE AFFERMAZIONI più clamorose emerse dal processo c’è stata quella sulla mordida di $100 milioni che sarebbe stata pagata dal Chapo direttamente all’ex presidente della repubblica Enrique Peña Nieto. La testimonianza ha comunque suscitato meno scalpore del previsto nel Messico di Andrés Manuel Lopez Obrador, neopresidente eletto su di una piattaforma anti-corruzione ed impegnato ad archiviare la guerra alla droga con quello che alcuni hanno criticato come un armistizio unilaterale .

I dubbi sull’efficacia dell’attuale politica di «distensione» sono alimentati anche dall’apparente salute di cui sembra godere il cartello di Sinaloa post-Chapo (ora guidato dal suo luogotenente Ismael Zambada Garcia detto “El Mayo”). Si registra inoltre l’avvento di nuove associazioni a delinquere, fra cui il Cártel de Jalisco Nueva Generación, che applicano gli stessi metodi ultra violenti ed hanno di recente diffuso una serie di comunicati video via social in cui minacciano gang rivali e rivendicano spavaldamente il loro nuovo potere mafioso nel Messico centrale.

LA CONDANNA del Chapo è giunta infine nel momento in cui il confine su cui ha costruito la propria fortuna – prima come «spedizioniere» dei produttori colombiani ed in seguito come magnate del contrabbando – è stato messo al centro della politica americana e del rapporto fra i due paesi. La giuria ha annunciato il verdetto un paio di giorni prima che Trump dichiarasse lo stato di emergenza nazionale per requisire i fondi per il muro di confine, aggirando il parere contrario del Congresso e trascinando la nazione verso una crisi costituzionale

SU QUESTO SFONDO il nome di El Chapo è stato direttamente invocato da Ted Cruz, l’ultraconservatore senatore texano che ha presentato un disegno di legge a lui intitolato («El Chapo Act») che destinerebbe i fondi sequestrati al boss e ad altri cartelli dei narcos, alla costruzione della famigerata muraglia «in stile israeliano».

La cooptazione della narrazione narco a favore della psicosi artefatta su cui Trump scommette la rielezione, ignora convenientemente come le fortune del boss e di tutto l’apparato criminoso dei cartelli (compreso quello sempre più florido del contrabbando di migranti) sia prosperato esattamente sull’esistenza di barriere che assicurano che sono solo i professionisti a poter garantire il passaggio di merci e persone per il massimo profitto.

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