Edith Bruck, l’ostinato mestiere del testimone
L'intervista Parla la scrittrice sopravvissuta alla Shoah che pubblica «I frutti della memoria» per La nave di Teseo. Deportata ad Auschwitz quando aveva solo 13 anni ha dedicato decine di opere a raccontare la sua storia
L'intervista Parla la scrittrice sopravvissuta alla Shoah che pubblica «I frutti della memoria» per La nave di Teseo. Deportata ad Auschwitz quando aveva solo 13 anni ha dedicato decine di opere a raccontare la sua storia
«Il Giorno della Memoria? Per me è tutti i giorni. E non riguarda soltanto gli ebrei, ma tutti gli esseri umani. Anche se guardandosi intorno viene da pensare che l’uomo non abbia imparato niente dal passato, ma ricominci ogni volta daccapo con l’odio, la guerra, la crudeltà. Io so di non aver cambiato il mondo, ma quel poco che ho fatto credo sia stato importante. E comunque continuerò a raccontare la mia storia finché ne avrò la forza». Deportata ad Auschwitz quando non aveva che 13 anni e poi passata anche per Bergen-Belsen e Dachau, sola sopravvissuta, insieme alla sorella Judit, di una numerosa famiglia di ebrei ungheresi, Edith Bruck ha scelto di dare voce a quella tragedia nelle sue numerose opere, sia in prosa che in poesia, e portando la propria preziosa testimonianza nelle scuole di tutta Italia. Il suo ultimo libro, pubblicato come i precedenti da La nave di Teseo, I frutti della memoria (pp. 160, euro 15) ripercorre proprio questo lungo impegno verso i giovani, raccogliendo anche alcuni dei disegni che le hanno inviato gli studenti che aveva incontrato. Nei giorni scorsi abbiamo incontrato Edith Bruck nella sua casa romana.
Nel suo nuovo libro ha raccolto lettere e disegni che ragazzi e ragazze le hanno inviato dopo che ha portato la sua testimonianza nelle loro scuole. Quando fu deportata ad Auschwitz era ancora più piccola di molti di loro, aveva solo 13 anni. Cosa ricorda?
Ero persa, disperata, spaventata. Non capivo cosa stava succedendo. Nei campi si pensava all’immediato: alla fame, al freddo, al terrore di poter morire ogni giorno. Pensavo soltanto a sopravvivere fino al giorno dopo. A volte succedeva che una delle ragazze con cui dividevo un povero giaciglio morisse durante la notte e al risveglio non c’era neppure il tempo di piangere, ma cercavi di allontanarti quel corpo freddo da te. Rasata, con gli zoccoli, i piedi nudi e una palandrana senza nient’altro addosso. Non eri più un essere umano: solo un numero: 11152, era il mio. Ci avevano separato dai nostri genitori, ma a un certo punto, quando abbiamo capito cos’erano le camere a gas, io e mia sorella abbiamo capito che non avremmo mai più rivisto mamma e papà. La nostra vita era cambiata per sempre. Mentre ci trovavamo a Auschwitz come in seguito. Fino ad oggi.
Ne «I sommersi e i salvati» Primo Levi esprimeva il timore, provato dai sopravvissuti al loro ritorno, di non essere creduti. Lei cosa provò in quel momento?
Quando sono tornata con mia sorella in Ungheria non siamo state ascoltate: nessuno voleva sentire ciò che raccontavamo, tutti erano presi solo dai propri problemi. In realtà, dal mio villaggio ci hanno cacciato con le accette in mano perché avevano paura che li denunciassimo o che volessimo le nostre povere cose, ma avevano rubato o distrutto tutto. E comunque nessuno voleva ascoltare ciò che avevamo da raccontare, mentre invece io, come tanti altri sopravvissuti, scoppiavo letteralmente di parole, parole piene di amarezza, di dolore, di veleno. Ma non c’era alcuna possibilità di buttar fuori anche solo una parte minima della sofferenza che avevamo dentro. E così ho cominciato a scrivere. Ho preso un quaderno e una matita e ho iniziato a buttare giù quello che provavo. Si trattava del mio primo libro che ho iniziato in Ungheria e che ho ricominciato a scrivere nel 1954, una volta che sono arrivata in Italia e ho imparato un po’ di italiano. Per me è stato sicuramente un grande aiuto il fatto che potevo in qualche modo sfogarmi con la scrittura, senza pensare alla testimonianza, senza pensare ad alcun dovere morale: era importante scrivere, era quasi una specie di terapia. In seguito non ho mai smesso, ma in quel momento non mi rendevo ancora conto di quanto fosse importante raccontare ai ragazzi, nelle scuole, ciò che avevo vissuto.
Lei è nata in Ungheria, ma ha fatto dell’Italia il suo Paese: due realtà che non sembrano aver fatto davvero i conti con il passato…
Purtroppo nessun Paese, salvo in qualche modo la Germania, ha fatto davvero i conti con il proprio passato dopo la Seconda guerra mondiale. Non li hanno fatti né l’Ungheria né l’Italia né la Francia… Ma non è accaduto solo questo. Sono cominciate subito le mistificazioni, le falsificazioni, i tentativi di negare l’Olocausto. E questo già prima degli anni Ottanta, quando Primo Levi mi telefonava e mi diceva: «Ma ti rendi conto che negano tutto già adesso, con noi vivi. Pensa cosa accadrà dopo…». Levi era distrutto dall’idea che si potesse negare ciò che noi stessi avevamo vissuto. Questo gli toglieva ogni speranza sul futuro. Penso a come soffrirebbe oggi, di fronte a questa destra che avanza ovunque a passi da gigante.
Quando ha iniziato a raccontare quanto aveva vissuto agli studenti?
Dopo l’uscita del mio primo libro, nel 1959 (Chi ti ama così, Lerici, nda). All’inizio era molto difficile, duro. Ero troppo ferita per parlare di quanto mi era accaduto. Piangevo. E, alla fine, anche i ragazzi piangevano o mi abbracciavano. In seguito, lentamente, ho trovato più forza… sì, sono diventata più forte per poter parlare. Anche più «fredda» per ricordare e raccontare. Ciononostante, ci sono dei punti in ciò che racconto ai ragazzi che mi fanno sentire come se dentro di me si stesse rompendo qualcosa. Nel ricordarli non riesco a trattenere l’emotività, il dolore, il peso di quei ricordi. Il momento più doloroso, più difficile da ricordare è sempre stato quello in cui fui separata da mia madre. Quando lo racconto, ho sempre pianto. Ancora oggi, non c’è via d’uscita: mi metto a piangere. Quando ne parlo scopro di non avere più difese…
È un momento terribile che ha raccontato ne «Il pane perduto» (La nave di Teseo, 2021). Come avvenne?
Accadde in modo drammatico, violento, ma allo stesso tempo fu forse per quello che sono sopravvissuta. All’arrivo ad Auschwitz c’era un soldato tedesco, l’ultimo dei selezionatori che mi disse: «Vai a destra, vai a destra». Io non sapevo quale fosse la destra e così mi sono aggrappata a mia madre. Per separarci, lui ha preso il calcio del fucile e l’ha colpita, facendola cadere a terra. Poi ha colpito anche me, finché non mi sono trovata a destra. Quando lo racconto ai ragazzi, parlo della «prima luce», il primo di cinque piccoli gesti che esprimevano una qualche traccia di umanità e che mi hanno permesso di immaginare il desiderio della sopravvivenza. Perché quel tedesco voleva in qualche modo salvarmi. A destra c’era la fila di coloro che erano destinati ai lavori forzati, mentre a sinistra si andava subito verso le camere a gas e i crematori.
Nel nuovo libro dice ai ragazzi: spero che manterrete la promessa di testimoniare nel futuro…
Alcuni lo stanno già facendo. Due di quelli che ho incontrato in passato, in Puglia e a Mantova, ora stanno a loro volta recandosi nelle scuole per raccontare questa storia. Certo, non può essere la stessa cosa che ascoltare la voce di chi è sopravvissuto personalmente all’Olocausto, ma il fatto che ci siano giovani così significa che quanto ho fatto io, e come me altri, fino ad ora ha avuto un senso. Parlo della fatica di questi 62 anni in cui ho incontrato gli studenti da una parte all’altra del Paese. Perché rivivere ciò che ho vissuto è sempre una tortura: ma attraverso di essa credo di poter davvero trasmettere ai giovani qualcosa che può cambiarli. Tra le molte lettere che ho ricevuto in tutti questi anni, ce ne sono alcune in cui i ragazzi giurano di non poter diventare, o di non voler essere più, fascisti, razzisti e antisemiti. Perciò se con questa grande fatica ho cambiato non dico molti, ma anche solo dieci o quindici ragazzi, vuol dire che ne è valsa la pena. La mia sopravvivenza ha avuto un senso. Liliana Segre ha detto che dopo di noi si rischia che cada l’oblio sulla Shoah e su quanto è accaduto a milioni di esseri umani. Io non credo che ci sarà solo l’oblio, ma che qualcosa di quello che abbiamo fatto in tutti questi anni resterà.
Come guarda a ciò che sta accadendo in Israele e Palestina, l’attacco del 7 ottobre, la guerra a Gaza: la pace e la convivenza sembrano perdute per sempre…
Spero che non sia per sempre. Il 7 ottobre è stato un colpo terribile. L’attacco di Hamas, l’uccisione di donne e bambini, gli stupri. Qualcosa di pazzesco, incredibile, da parte di un gruppo che ha detto che vuole uccidere gli ebrei in tutto il mondo. Poi è arrivata la risposta di Israele, senza dubbio esagerata, con tutti i morti di Gaza. Per me ogni vita è preziosa, ed è una cosa che ho imparato nei lager. Solo che di quello che sta accadendo ora è responsabile Netanyahu e coloro che lo circondano in quel governo, non ogni ebreo, ovunque si trovi. Oggi, in tutto il mondo, gli ebrei sono giudicati come un tutto: non si parla mai di un singolo individuo, un ebreo come persona, ma dicono: «Voi, voi…». Come accadeva un tempo e come temo continuerà ad accadere.
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