La risposta del presidente ecuadoriano Guillermo Lasso al processo di impeachment aperto contro di lui martedì è stata, a sorpresa, quella più eclatante: la cosiddetta “muerte cruzada”, il meccanismo costituzionale che consente al capo dello Stato di sciogliere l’Assemblea nazionale ma al prezzo della convocazione entro sei mesi di nuove elezioni parlamentari e presidenziali. Un omicidio-suicidio, insomma, a cui, dall’approvazione, nel 2008, dell’attuale Costituzione, nessun presidente si era azzardato a ricorrere. Ma che intanto, per i prossimi sei mesi, gli consentirà di governare a colpi di decreti legge.

«HO DECISO di applicare l’articolo 148 della Costituzione che mi concede la facoltà di dissolvere l’Assemblea nazionale per grave crisi politica e agitazione interna», ha dichiarato l’ex banchiere ieri mattina, inviando un forte contingente di forze dell’ordine e dell’esercito a presidiare il parlamento, il palazzo presidenziale e il ministero della Difesa. Aggiungendo di voler così restituire «al popolo ecuadoriano il potere di decidere il suo destino alle prossime elezioni»,
Una decisione, in realtà, senza solide basi legali, adottata da Lasso il giorno successivo all’apertura della sua messa in stato di accusa per peculato, quando, professando la propria innocenza, aveva lanciato contro le opposizioni il suo duro j’accuse: «Io vi accuso. Vi accuso di aver abbandonato il vostro ruolo di legislatori. Voi siete ora anti-legislatori di questa Repubblica, perché non create leggi, ma le distruggete».

PER LE OPPOSIZIONI, al contrario, non esisterebbero dubbi sul fatto che il presidente fosse a conoscenza degli atti di corruzione legati al contratto con la compagnia di trasporto petrolifero Amazonas Tankers ma che, ciononostante, non avesse mosso un dito.
In realtà, non era affatto detto che le opposizioni avrebbero raccolto i 92 voti necessari a destituirlo. Ci avevano del resto già provato nel giugno del 2022, in mezzo delle proteste del movimento indigeno, e non ci erano riuscite, arrivando solo a 80 voti. E il 9 maggio, quando l’Assemblea nazionale aveva dato il via libera al processo di impeachment, mancavano ancora quattro voti all’appello, a fronte però di diverse assenze parlamentari.
In ogni caso, di fronte al rischio della destituzione, Lasso, che governa il paese dal maggio del 2021, ha preferito prendere lui l’iniziativa, e uscire di scena – con comodo – alle sue condizioni, facendo più rumore possibile.

Un rumore, però, che non dovrebbe risultare troppo sgradito alle orecchie dell’Unión por la Esperanza (legata all’ex presidente Rafael Correa), che, dopo aver stravinto le amministrative dello scorso febbraio, punterà ora a riprendersi il paese. Non a caso Correa, pur ritenendo illegale la decisione di Lasso, l’ha comunque definita un’occasione per «mandarlo a casa». Ed è un compito che non appare affatto difficile, considerando il forte scontento della popolazione nei confronti del governo, soprattutto di fronte a un aumento incontrollato della criminalità organizzata nel paese, alla corruzione dilagante e alla crisi sempre più acuta dei servizi pubblici.

QUANTO ALLA CONAIE, la Confederación de nacionalidades indígenas del Ecuador che si era espressa energicamente a favore dell’impeachment, ha annunciato la convocazione di un consiglio straordinario per valutare la situazione. E il suo presidente Leonidas Iza è stato durissimo: «Non disponendo dei voti necessari per salvarsi dalla sua imminente destituzione, Lasso ha realizzato un vile autogolpe con l’aiuto della polizia e delle forze armate, avviandosi verso una dittatura».