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Ecuador, la vittoria di Lasso è quella dei paradisi fiscali

Ecuador, la vittoria di Lasso è quella dei paradisi fiscali

Quel mondo che Correa aveva provato a regolamentare Le proprietà del vincitore: 136 immobili per 64 milioni di $, alcuni comprati in contanti

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 13 aprile 2021

Ferma l’avanzata delle sinistre, ferma gli indigeni e le pretese indigeniste, ferma questo e quell’altro… Al terzo e stavolta vittorioso tentativo come presidente dell’Ecuador, il banchiere conservatore Guillermo Lasso fermerà anche un’altra cosa: la riforma mondiale del fisco. Un dettaglio che riguarda i cittadini del mondo, oltre a quelli del suo paese.

Dal 2016 il piccolo, povero, politicamente intricato Ecuador si è messo alla testa di una campagna globale contro i paradisi fiscali, che succhiavano il sangue a lui e a ogni altro paese del mondo (e più un paese è povero, più il vampirismo fiscale pesa). Erano i tempi dei Panama Papers – qualcuno se li ricorda, quel mucchio di rivelazioni sui fantastiliardi pompati nella Tortuga bancaria mondiale?

L’allora presidente ecuadoriano Rafael Correa varò leggi contro le fughe di capitali e, unico paese del pianeta, promosse e vinse un referendum che rendeva illegale possedere interessi nei tax havens per chi ricoprisse o si candidasse a cariche pubbliche. Intercettò milioni di dollari in fuga – da molti anni il dollaro è la moneta del paese, al posto del derelitto sucre – e ne fece politiche di sviluppo e contro la povertà.

E sì, certo, anche politiche estrattiviste ambiziose e poco ambientaliste, grazie alle quali si incornò in modo irrimediabile con le grandi sigle indigene, che è il motivo principale per cui più o meno sette milioni di elettori di sinistra (tecnocratica o indigenista) si sono fatti battere da 4,6 milioni di elettori conservatori e filo-impresa. Ma questa è un’altra storia. Dopo il referendum anti-paradisi fiscali del 2017, un po’ di ecuadoriani ricchi dovettero affrontare il dilemma: continuare a possedere lucrosi asset nell’Isola di Man, nel Delaware e in altri posti dal fisco delicato, o candidarsi in Ecuador. Tra loro c’era… Guillermo Lasso, guarda un po’, proprio l’uomo che ieri ha vinto le elezioni. Possedeva, il pover’uomo, una banca a Panama (non un conto cifrato, proprio tutta una banca: si chiama Banisi) e un certo numero di immobili in Florida.

Così, nello stesso tempo, Rafael Correa metteva se stesso alla testa di una campagna Onu che puntava a riformare il fisco del mondo, e Guillermo Lasso metteva i nomi di figli, nipoti e prestanome vari a capo del suo vasto impero, sbianchettando il proprio per evitare la scure dell’incandidabilità. Il banchiere aveva già fatto due campagne presidenziali, finite male. La terza non l’avrebbe persa.

Lasso e famiglia non facevano che seguire il modello del paese guida, gli Usa. Le grandi ricchezze americane pagano oggi le stesse tasse degli Anni 20. Del secolo scorso (The triumph of injustice , Emmanuel Saez e Gabriel Zucman, 2019). Quelle ecuadoriane non sono da meno. Come quelle italiane e di ogni altro posto.

La proposta dell’Ecuador di Correa si era sviluppata all’interno del G77, una organizzazione intergovernativa che oggi comprende 134 paesi, tutti del sud del mondo (nel ’64 i fondatori furono 77, da cui il nome), ma ormai premeva oltre i confini degli stati. Puntava a creare il consueto panel di esperti, ma anche un già meno consueto panel di fiscalisti a disposizione degli stati, in pratica commercialisti globali da sguinzagliare contro le regole e i trucchi degli avvocati taglia-tasse di tutto il mondo – più che degli 007, degli 00740. E poi misure contro la competizione fiscale tra stati – come le Big Tech che fatturano paccate di miliardi in Italia e pagano noccioline al fisco in Irlanda?

Correa concluse felicemente il mandato ma lo scorso anno una (almeno dubbia) sentenza a 8 anni per corruzione lo fece fuggire di corsa a Bruxelles, dove ancora risiede protestando innocenza. Tra i tecnici che lo avevano aiutato a scrivere le leggi anti-fuga di capitali, però, c’era un giovane e promettente ricercatore nemmeno trentenne, si chiamava Andrés Arauz – già, proprio il candidato correista ieri sconfitto dal banchiere Lasso. Arauz aveva lavorato tra l’altro al prestigioso Centre for economic policy research (Cepr) di Washington, che tra i capi ha Mark Weisbrot – economista e editorialista: il Guardian, The Nation – e tra i contributors fissi Joseph Stieglitz. Il Cepr ha indagato tra le proprietà dei Lasso e ha trovato una miniera d’oro: 136 immobili per 64 milioni di dollari, alcuni comprati in contanti, in Florida.

Una villa da 1,5 milioni di dollari in contanti? Ma neanche la buonanima di Pablo Escobar. Tutti vorticano in un alveare di società a scatole cinesi, dai nomi buffi come quelli che usava Berlusconi quando era piccolo (Nora Investment Cinco, Nora Investment Seis, e poi Siete, Ocho e Nueve…) . Precisamente ciò contro cui si battevano le leggi ecuadoriane anti-paradisi. Il tutto nel più rigoroso silenzio del media ecuadoriani.

Quanto scommettiamo che la proposta per un fisco mondiale equo e contro i tax havens da ieri è morta?

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