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Ecuador, con il 59% di sì il petrolio di Yasuní resta sotto terra

Ecuador, con il 59% di sì il petrolio di Yasuní resta sotto terra – Foto Ap

Ecuador Un referendum dal risultato epocale. Leonidas Iza (Conaie): "Abbiamo salvato le loro vite e la loro sovranità alimentare. Nella lotta ai cambiamenti climatici i territori meglio protetti sono quelli indigeni"

Pubblicato circa un anno faEdizione del 22 agosto 2023

«Oggi abbiamo fatto la storia», ha esultato la campagna Yasunidos, nata proprio dieci anni fa in difesa di un’idea rivoluzionaria: quella di lasciare sotto terra il petrolio presente nell’area del parco nazionale Yasuní, nota come Blocco 43 o Itt, con o senza una compensazione finanziaria da parte della comunità internazionale.

UN’IDEA diventata finalmente realtà con la netta vittoria del Sì (con il 59% dei voti) al referendum di domenica sulla protezione di un paradiso unico di biodiversità dell’Amazzonia, a cui si è aggiunta anche la vittoria (con il 68% dei voti) al referendum locale per la salvaguardia del paradiso di Quito, il Chocó-Andino. Ed è una vittoria che può rivendicare solo la cittadinanza, la quale al progetto Yasuní ha creduto fin da quando, nel 2007, su sollecitazione di una serie di organizzazioni ambientaliste, l’allora ministro dell’Energia e delle miniere Alberto Acosta lo aveva presentato al presidente Rafael Correa.

E ha continuato a crederci anche quando nel 2013, di fronte all’indifferenza suicida dei paesi ricchi, Correa aveva dichiarato conclusa l’iniziativa e dato il via allo sfruttamento dei giacimenti del Blocco 43, sordo ai richiami del movimento ambientalista: «Se lei dichiara il fallimento dell’iniziativa – si leggeva in una profetica lettera aperta – non farà che dichiarare il fallimento del suo governo. La proposta di lasciare il petrolio sotto terra continuerà a rappresentare un programma fondamentale, innovativo, necessario per il futuro di questo paese e di tutto il mondo, anche dopo che lei avrà lasciato la guida del paese».

TEMENDO di perdere voti, nessuno dei candidati alla presidenza si era espresso esplicitamente per il No ma, di certo, nessuno aveva fatto campagna per il Sì, a eccezione dell’indigeno Yaku Pérez, la cui candidatura, però, non ha ricevuto il sostegno della Conaie, la potente Confederazione delle nazionalità indigene, in aperta polemica con la dirigenza del suo braccio politico, Pachakutik, accusata di essere scesa troppe volte a patti con il presidente Lasso.

MENO AMBIGUA si era rivelata, sul finire della campagna, la candidata correista Luisa González: troppo onerosa – aveva spiegato – la rinuncia a un introito di 1.200 milioni di dollari in un paese bisognoso di tutto, tanto più che, aggiungeva, è ormai dal 2016 che nel Blocco 43 si estrae petrolio.

Una cifra, tuttavia, fortemente ridimensionata da un gruppo di economisti schierato con il Sì secondo cui, nel 2024, le entrate sarebbero appena di 275 milioni di dollari, pari a meno dell’1% del bilancio dello stato. «Per avere un’idea – hanno scritto gli economisti – equivale, per esempio, a quello che il governo spende per i salari in nove giorni».

Ma se, a parte Pérez, la classe politica non ha mostrato interesse per la questione, nel paese la consapevolezza dell’importanza del referendum era invece ben presente. Prima di tutto per la necessità di preservare una delle aree con maggiore biodiversità del pianeta – 1.300 specie di alberi, 610 specie di uccelli, 268 specie di pesci – dichiarata Riserva mondiale della biosfera dall’Unesco nel 1989 e abitata, oltre che da Waorani, Kichwa e Shuar, anche da popoli indigeni in isolamento volontario: Tagaeri, Taromenane e Dugakaeri.

«ABBIAMO SALVATO il loro territorio, le loro vite, la loro sovranità alimentare e le loro medicine nella foresta sacra di Yasuní», ha detto, in una dichiarazione rilasciata a Survival International, il presidente della Conaie Leonidas Iza, evidenziando come, secondo la scienza, «nella lotta ai cambiamenti climatici i territori meglio protetti sono quelli indigeni».
La posta, però, era ancora più alta. Come avevano infatti sottolineato la Facoltà di Economia e l’Istituto di ricerche economiche della Pontificia Università cattolica dell’Ecuador, l’esito delle urne potrebbe determinare «in certa misura» la strategia di sviluppo da seguire in futuro: «Insistere nell’ampliamento della frontiera estrattivista» o «esplorare altre alternative» – dall’ecoturismo comunitario all’agroecologia – in direzione di un’economia post-petrolifera, a partire da «territori così ricchi di biodiversità e così ecologicamente fragili». Territori che in tutta l’Amazzonia ecuadoriana hanno registrato, tra il 2015 e il 2021, quasi 900 sversamenti di petrolio, alcuni proprio nel parco Yasuní.

MA ORA è tempo di festeggiare: «Per la prima volta – ha evidenziato la campagna Yasunidos – un paese decide di salvaguardare la vita, lasciare il petrolio sotto terra e avviare un cambiamento per la costruzione di un futuro migliore per tutte e tutti». Ed è alla speranza che si affida Zenaida Yasacama, vice-presidente della Conaie: «L’era dello sfruttamento, che tanto ha pregiudicato l’ambiente e impoverito le comunità, è arrivata al capolinea».

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