Persino Paesi con poche risorse come Cuba e Sudafrica sono riusciti a produrre un vaccino anti-Covid-19, facendo a meno delle corporation e del loro know-how. L’Italia no. Dopo due anni di pandemia e di richiami sulla preparazione a future emergenze, non c’è ancora un polo scientifico-industriale che garantisca una produzione domestica di vaccini in tempi brevi.

GLI ANNUNCI sul «vaccino italiano» in questi due anni non sono mancati. L’ultimo è di ieri ed è firmato dal ministro dello sviluppo economico Giancarlo Giorgetti: «Un accordo con l’azienda farmaceutica Irbm di Pomezia – recita una nota del Mise – per realizzare un programma di investimenti di 34 milioni di euro, finalizzato a rafforzare la capacità di contrasto al Covid 19 e la diffusione di nuovi coronavirus». L’obiettivo è «la produzione e la sperimentazione di nuovi vaccini e terapie innovative, anche sulla base delle sinergie venutesi a creare nell’ambito del piano di collaborazione avviato nel 2020 con Oxford University e AstraZeneca».

A qualcuno la sigla Irbm sbloccherà un ricordo: è l’azienda che fornì ad AstraZeneca le prime dosi di vaccino adenovirale da utilizzare nelle sperimentazioni cliniche. Le stesse che, per un errore di Oxford, vennero somministrate in dosi sbagliate creando bei grattacapi a chi doveva valutarne l’efficacia.

Anche Pomezia risveglia qualche reminiscenza. A due chilometri dallo stabilimento Irbm c’è quello della Reithera (guidata da ex-ricercatori Irbm), la prima candidata allo sviluppo del vaccino italiano: un clone del vaccino adenovirale AstraZeneca, con un adenovirus di gorilla e non di scimpanzé. Ma dopo i risultati incoraggianti nella sperimentazione su 900 volontari, lo sviluppo si è interrotto per un mai chiarito dietrofront del governo.

La ragione ufficiale, sollevata dalla Corte dei Conti, fu che l’investimento richiesto al governo era inferiore alle previsioni, motivo piuttosto singolare per fermare un progetto strategico. Molti legarono l’episodio all’avvicendamento tra Giuseppe Conte e Mario Draghi e soprattutto tra Domenico Arcuri e il generale Figliuolo nella gestione operativa della risposta alla pandemia. Inoltre, il direttore dello Spallanzani Francesco Vaia non ha mai spiegato perché il suo istituto si sia sfilato dalla ricerca sul vaccino prima ancora dello stop della Corte, nonostante allo Spallanzani spettasse il coordinamento della sperimentazione clinica.

ORA GIORGETTI torna a Pomezia per provare a realizzare una piattaforma vaccinale made in Italy basata sulla tecnologia adenovirale. Poco importa che i vaccini ad adenovirus si siano rivelati meno sicuri ed efficaci. E che tre quarti delle dosi AstraZeneca e Johnson & Johnson acquistate dall’Italia siano rimaste inutilizzate o donate ad altri paesi perché da noi non le vuole nessuno.

IL MISE NON HA spiegato in quale forma il governo aiuterà Irbm. Il finanziamento potrebbe passare dalla Fondazione Enea Tech e Biomedical, fondo pubblico vigilato dal Mise nato nel 2020 per occuparsi di start-up innovative. Al suo insediamento, Giorgetti aveva fatto capire che tra i compiti del fondo ci sarebbe stato anche lo sviluppo di un vaccino, magari proprio lo stesso Reithera. Nel 2021 il governo lo ha accontentato e ha ridefinito gli obiettivi di Enea Tech, centrandoli sul settore farmaceutico e affidandogli un importante budget di 500 milioni di euro. Da un anno però il fondo è fermo – come molti dossier in mano a Giorgetti – tra regolamenti ancora da scrivere e discutibili scelte manageriali del presidente Giovanni Tria e del direttore Marco Baccanti. Metà del personale nel frattempo se n’è andato, dicono quelli rimasti. Difficile in queste condizioni seguire un tema strategico come quello del vaccino.

DUNQUE SI PROCEDE a tentoni. Per il Covid-19 ci protegge l’ombrello dell’Ue che ha già acquistato 4 miliardi di dosi. Per il futuro siamo al punto di prima e con le idee ancora più confuse se possibile. Oltre agli ondivaghi piani del Mise, si muove anche il ministero della Salute cui il Pnrr affida un portafoglio consistente da spendere nella preparedness antipandemica. Si punta molto sul biotecnopolo che nascerà a Siena sotto l’egida del vaccinologo Rino Rappuoli per sviluppare vaccini a mRna e anticorpi monoclonali. L’ultima finanziaria gli destina 340 milioni di euro ma non produrrà risultati prima di due anni.

Nemmeno le imprese private hanno fatto passi avanti. A parte l’infialamento dei vaccini, nessuna azienda ha dato vita a una produzione locale, neanche su licenza di corporation straniere. L’ultimo tentativo è quello dell’italo-svizzera Adienne, già nota alle cronache come possibile produttrice italiana del vaccino russo Sputnik V. Ora vorrebbe produrre in Italia il vaccino cubano Soberana, per cui ha già firmato un memorandum d’intesa all’Avana. Ma la strada regolatoria è tutta in salita.

DOPO DUE ANNI di tentativi a vuoto, dunque, l’Italia si trova senza una produzione locale di vaccini innovativi. Un magro risultato per il Paese con la maggiore produzione farmaceutica d’Europa, ai livelli di Francia e Germania. La differenza è che la nostra industria produce soprattutto farmaci scoperti altrove e investe in ricerca e sviluppo tre volte meno della Francia e cinque volte meno della Germania. Ma da noi pure lo Stato ha smarrito la capacità di programmare la ricerca pubblica. Anche quando le risorse ci sono, dominano gli interessi di bottega. E così a ogni cambio di governo si ricomincia da zero.