La rievocazione pretestuosa degli anni Settanta non è una prerogativa della sola destra italiana che ne agita lo spauracchio ad ogni modesta insorgenza di conflittualità sociale. In Germania infuria la polemica dopo l’affermazione di Alexander Dobrindt, capogruppo della Csu al Bundestag, secondo cui tra le fila di Last Generation starebbe prendendo corpo una «Raf del clima» con riferimento alla lotta armata in Germania negli anni Settanta e Ottanta.

In altre parole gli attivisti del gruppo, che ha moltiplicato nelle ultime settimane i blocchi stradali e le azioni dimostrative nei musei d’arte, potrebbero imboccare una deriva terroristica. Dobrindt è un acerrimo nemico degli ecologisti da lungo tempo. Nel 2016 Green Peace lo aveva incluso in un suo “libro nero” come lobbysta dell’industria dell’auto e dunque particolarmente interessato a screditare il movimento contro il cambiamento climatico sospettandolo di covare nei suoi ranghi un radicalismo tendente alla violenza. Il grottesco paragone è stato decisamente respinto, a cominciare dal vicecancelliere verde Robert Habeck, ma questo non inficia una tendenza generale a mettere sotto accusa la pratica dell’illegalità e della disobbedienza da parte di Last Generation.

Il cancelliere Olaf Scholz ha ripetutamente condannato le azioni del gruppo e dichiarato di aspettarsi conseguenze giudiziarie che, a dire il vero, non hanno tardato a manifestarsi. Un coro unanime, con poche sfumature, (a parte i negazionisti) dichiara sacrosanto il fine del movimento di preservare il pianeta dalla catastrofe climatica, ma ne ritiene inaccettabili i mezzi. «Cosa c’entra imbrattare opere d’arte con la salvaguardia del clima?» insiste il Cancelliere. E si può anche convenire, a patto di girare la stessa domanda retorica a molte misure di politica economica e industriale dei governi e a un sistema di potere che visibilmente resiste a ogni ipotesi di cambiamento. Laddove ritardi e resistenze si traducono in sempre più frequenti disastri che investono drammaticamente territori e comunità. Le azioni nei musei sono simbolicamente controproducenti e concettualmente errate, nonché indifferenti alla grande platea di quelli che, imboccati dai capipopolo della destra, ritengono che «con la cultura non si mangia».

Ma l’occupazione di piazze e strade, la resistenza passiva, l’interruzione temporanea dei normali flussi della vita metropolitana, la disobbedienza (si suppone a qualche norma o prescrizione) appartengono da sempre alla pratica dei movimenti di lotta. Se creano disagi, lo stesso può dirsi degli scioperi. Ma oggi un’intera moltitudine è oggettivamente tagliata fuori da questo strumento di protesta. Non si sente inoltre rappresentata dalla politica parlamentare, dai suoi tempi, dai suoi equilibri e dal suo cursus honorum. Circostanza che non viene perdonata, quando anche il già ribelle e radicale Kevin Kühnert, ora segretario della Spd, condanna le pratiche di Last Generation, tacciandole di «assurdità». Chi non sta al gioco dei partiti e pretende di influire sulla vita sociale e sul discorso pubblico fuori dalle sedi istituzionali viene posto al di fuori della democrazia.
Gli estremisti, sovversivi per definizione, sostiene l’establishment compresi i riformatori che lo abitano, puntano a un cambio di sistema.

Ma è possibile impedire la catastrofe climatica e il collasso del pianeta conservando l’attuale sistema di sviluppo e di distribuzione della ricchezza nonché le gerarchie di potere che lo sovraintendono? Tolti i negazionisti del cambiamento climatico, per tutti gli altri la risposta dovrebbe essere chiaramente negativa.
Come chiaro dovrebbe essere che un riformismo dei piccoli passi è ormai da tempo scaduto tra accordi disattesi e conferenze inconcludenti. In questo quadro criminalizzare le azioni di protesta degli attivisti di Last Generation ha qualcosa di indecente. Non si tratta certo di emuli dei «sabotatori» descritti nell’omonimo romanzo di Edward Abbey (1975), né degli ecologisti radicali di Earth First che ne trassero ispirazione. Il rapporto tra mezzi e fini è assai più un problema dei governi ricattati dalle lobby che non dei movimenti. Posto che per i primi il fine non sia quello di sfruttare le risorse fino all’ultimo per conservare consenso e potere nell’arco della propria vita o poco più.

Contrariamente ad alcune frange ecologiste del passato, Fridays for future e le sue diverse articolazioni non sembrano infettate da alcuna forma di integralismo o di fanatismo ma razionalmente consapevoli della maturità di una crisi che non lascia più margini di lineare conservazione. Della necessità, appunto, di un cambio di sistema.
Nonostante il seguito di massa di cui il movimento gode in molti paesi e il carattere decisamente razionale delle sue argomentazioni l’ascolto da parte di istituzioni e forze politiche è, proprio per questo incombere di una temuta soluzione di continuità, minimo, retorico e formale. A stupire non è dunque la ricerca di nuovi spazi d’azione e di visibilità per bucare la nebbia della rimozione e del rinvio, quanto la meschina isteria repressiva che circola a Berlino al tempo dei rosso-verdi.